L’affare CPR: filiera remunerativa a detrimento delle persone trattenute

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di Eleonora Costa

Lo scorso 8 giugno, in Camera dei deputati, la Coalizione Libertà e Diritti Civili (CILD) ha presentato il suo nuovo rapporto “L’affare Cpr. Il profitto sulla pelle delle persone migranti”, frutto di un complesso lavoro di indagine che intende fare luce sulla progressiva privatizzazione nella gestione delle strutture di detenzione per migranti.

Tale fenomeno costituisce uno degli aspetti più controversi della detenzione amministrativa, in quanto l’interesse degli enti privati alla massimizzazione del profitto ha inevitabilmente comportato un deterioramento delle condizioni – già precarie – delle persone trattenute, i cui bisogni e diritti vengono quotidianamente ignorati.

Fermo quanto sopra, il rapporto si fonda su un’importante premessa: la soluzione non è avere strutture gestite dal pubblico, bensì superare in toto il sistema della detenzione amministrativa che – per sua natura intrinseca – non è in alcun modo riformabile e, pertanto, va eliminato.

La detenzione amministrativa, infatti, è caratterizzata da uno strutturale stato di eccezione dovuto alla creazione di un autonomo canale punitivo valevole solo per gli stranieri, cui corrispondono delle garanzie differenti rispetto a quelle attribuite al resto della popolazione.

Come meglio spiegato nel rapporto, la detenzione amministrativa è terreno fertile per una pericolosa “extraterritorialità giuridica”, in cui gli stranieri:

1)      sono privati della libertà personale pur non avendo commesso alcun reato, ma per il semplice fatto di aver violato una norma amministrativa riguardante l’ingresso e il soggiorno nel territorio di un altro Stato;

2)      non godono dei diritti né delle garanzie proprie della materia penale, essendo le modalità di detenzione amministrativa disciplinate da un semplice regolamento ministeriale (le cui disposizioni, peraltro, sono spesso violate dalle Prefetture oltre che dagli enti gestori);

3)      non si vedono neppure garantiti quei principi costituzionali che dovrebbero considerarsi inderogabili.

È la stessa storia della detenzione amministrativa, in fondo, a parlarci di un sistema drammaticamente inumano e strutturalmente non rispettoso dei diritti e della dignità delle persone recluse, anche in presenza di una gestione affidata ad enti pubblici.

Inizialmente, infatti, quando nel 1998 la Legge Turco-Napolitano ha introdotto la detenzione amministrativa in Italia, i c.d. Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (“CPTA”) erano gestiti esclusivamente dalla Croce Rossa Italiana (CRI), nella sua allora veste di ente pubblico non economico. Fin da subito, tuttavia, la scelta della CRI di gestire tali Centri fu aspramente criticata da parte della società civile, anche alla luce di alcuni Rapporti che – già allora – palesavano delle condizioni indegne di trattenimento e dei servizi alla persona del tutto inadeguati.

In ogni caso, il modello fintamente “umanitario” della gestione dei centri di detenzione amministrativa dei migranti entrò presto in crisi, per ragioni prettamente economiche. La Croce Rossa smise progressivamente di vedersi aggiudicate le gare d’appalto, avendo – in qualità di ente pubblico – un costo del lavoro più alto rispetto ad altri soggetti che cominciavano a concorrere per la gestione dei Centri proponendo delle offerte economicamente più vantaggiose.

Inizia così, intorno al 2008, la stagione della gestione da parte delle Cooperative delle strutture di detenzione, nel frattempo ridenominate Centri di Identificazione e di Espulsione (“CIE”). Tale passaggio è ben rappresentato dal Consorzio “Connecting People Onlus”, che nel giro di pochi anni è riuscito ad ottenere la gestione della maggior parte delle strutture, tra cui: (i) il CIE di Gradisca d’Isonzo e di Brindisi, dal 2008; (ii) il CIE di Palazzo San Gervasio, dal 2011; (iii) il CIE di Bari, dal 2013.

Un’ulteriore involuzione del sistema si registra dal 2014, quando iniziano a presentarsi alle gare d’appalto per l’affidamento dei Centri – ridenominati, nel 2017, Centri di Permanenza e Rimpatri (“CPR”) – non più solo Cooperative ma anche società e grandi multinazionali che, in tutta Europa, gestiscono strutture di trattenimento e servizi ausiliari all’interno delle carceri.

Il rapporto indaga a fondo le storie di queste società, spesso note alla cronaca per le numerose accuse di corruzione e malagestione dei Centri di detenzione non solo per il trattamento disumano riservato alle persone trattenute, ma anche per la precarizzazione e la violazione dei diritti dei dipendenti delle strutture stesse.

Non sorprende, pertanto, che tali enti privati – che sembrerebbero disposti a tutto pur di massimizzare i loro profitti – riescano spesso ad aggiudicarsi le gare d’appalto per la gestione dei Centri con modalità aggressive, ossia proponendo importanti ribassi sui prezzi posti a base delle aste, con il rischio di gravi violazioni.

Ne è un esempio eclatante il Gruppo ORS, leader da oltre 30 anni nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa dei migranti in tutta Europa, che gestisce oltre 100 strutture in Svizzera, Austria, Germania, Spagna e Italia. A questo proposito, è interessante notare come ORS:

          non si sia fatta remore a presentare vertiginose e paradossali offerte a ribasso, come quella per la gestione del Centro di prima accoglienza Casa Malala, nella quale i costi alimentari ammontavano a 4,88 euro pro die e pro capite considerati comprensivi di colazione, pranzo, cena e dei costi del personale;

          sia riuscita ad aggiudicarsi la gestione di diversi Centri (tra cui il CPR di Macomer) quando la società risultava ancora inattiva, sebbene per partecipare alle procedure ad evidenza pubblica sia necessaria una certa esperienza nel settore di attività pertinente.

Più in generale, il rapporto di CILD evidenzia come nel nostro Paese la detenzione amministrativa sia diventata una filiera molto remunerativa, in cui sembrano realizzarsi due preoccupanti tendenze: (i) da un lato, la ricerca della massimizzazione dei profitti da parte delle imprese che gestiscono i Centri; (ii) dall’altro una continua spinta alla minimizzazione dei costi da parte dello Stato, con una deresponsabilizzazione di quest’ultimo rispetto alla gestione delle strutture.

Nel periodo 2021-2023, infatti, le Prefetture competenti hanno bandito gare d’appalto per un costo complessivo di circa 56 milioni di euro (nello specifico 56.674.653,45 euro, iva esclusa) finalizzate alla gestione, da parte dei privati, dei CPR presenti sul territorio, cui vanno ancora sommati i costi relativi alla manutenzione delle strutture e del personale di polizia. Rispetto a questi ultimi, le Prefetture hanno rigettato le richieste di accesso civico presentate da CILD, non rendendo noti i costi delle forze dell’ordine nei Centri per presunti “motivi di sicurezza”.

In tale contesto, peraltro, l’analisi degli schemi di capitolato d’appalto predisposti dal Ministero dell’Interno negli ultimi anni (2018 e 2021) dimostra come lo Stato italiano abbia puntato ad una drastica riduzione di tutti i servizi alla persona previsti all’interno dei CPR (con tagli fino al 70% ai servizi sanitari; fino al 56% al servizio di mediazione linguistica; fino ad arrivare al quasi azzeramento del servizio di informazione normativa), con una evidente ripercussione sui diritti delle persone trattenute. Inoltre, le inchieste e le denunce da parte della società civile e di alcuni parlamentari hanno evidenziato una preoccupante carenza di controlli da parte delle Prefetture sull’operato degli enti gestori. Ne sono conferma i tantissimi casi denunciati in molteplici Rapporti di attestazioni di idoneità al trattenimento non effettuati dalle ASL territorialmente competenti (ma, in maniera del tutto illegittima, dal personale dipendente dall’ente gestore); di controlli mai svolti dalle competenti autorità sulla salubrità dei luoghi e sulla qualità del cibo somministrato; di mancate verifiche sul corretto pagamento degli stipendi degli operatori, nonostante le segnalazioni dei dipendenti dell’ente gestore inviate alle autorità, che non solo non hanno preso provvedimenti ma hanno aggiudicato il bando successivo alla stessa società.

La panoramica di violazioni e di controlli inesistenti appena illustrata è ulteriormente aggravata dall’impossibilità per la società civile di monitorare i CPR: l’accesso a questi ultimi, infatti, soggiace a delle regole rigide che contribuiscono a renderli opachi e impenetrabili. Peraltro, quando autorizzato, l’accesso è comunque limitato ai soli spazi comuni – senza possibilità di ispezionare le unità abitative né intrattenere colloqui con i detenuti – vanificando così ogni possibilità di condurre un’attività ispettiva effettiva ed efficace. Come se non bastasse, anche i pochi dati pubblicati sui siti delle Prefetture non risultano essere organici né di facile consultazione.

Insomma, come illustrato dall’Avv. Fachile di ASGI, il rischio – già in atto – della detenzione amministrativa è quello di creare una differenza che non è né sociale né economica, bensì giuridica delle persone: ossia creare per un determinato gruppo (nella specie, per i cittadini stranieri) un vero e proprio scarto giuridico.

Con questo rapporto, pertanto, CILD promulga l’idea che i CPR vanno definitivamente chiusi e l’eventuale passaggio da una gestione privata dei CPR ad una gestione totalmente pubblica non cambierebbe lo stato delle cose, ma ci riporterebbe esattamente da dove siamo partiti: in un vero e proprio buco nero.