Sorvegliare e punire: il nuovo piano del Governo per i nuovi CPR

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di Oiza Q. Obasuyi e Marika Ikonomu

I Cpr continuano a essere luoghi di detenzione in cui il rispetto dei diritti umani viene meno, dal diritto alla salute all’assistenza legale. Ciò è stato nuovamente confermato dall’ultimo rapporto – nonché piattaforma di raccolta dati – “Trattenuti” realizzato dalla Ong ActionAid e il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari Aldo Moro. A ciò si aggiunge la volontà del Governo di proseguire con la realizzazione di nuovi Cpr in ogni regione, come previsto dal c.d. Decreto Piantedosi (Decreto Legge del 10 marzo 2023, n. 20). Il modello seguito sarebbe quello del Panopticon, ossia una prigione circolare in cui tutte le persone rinchiuse vengono continuamente sorvegliate e conseguentemente punite in una condizione di estrema precarietà e vulnerabilità.

1. “Trattenuti” in un sistema inumano

Che i Cpr siano una zona grigia in cui le garanzie costituzionali di chi viene privato della libertà personale non sempre trovano applicazione è cosa nota. A provarlo nuovamente è il rapporto “Trattenuti” (realizzato tra l’autunno del 2021 e la primavera del 2023), una radiografia del sistema di detenzione amministrativa.

In primo luogo, nel rapporto viene ribadito che i Centri sono amministrati in una condizione di privatizzazione de facto, infatti, si legge: “[…] l’erogazione dei servizi alla persona è affidata a soggetti privati. Restano competenza della pubblica amministrazione le procedure relative alla posizione giuridica degli stranieri, il mantenimento dell’ordine all’interno delle strutture, nonché la manutenzione ordinaria e straordinaria degli stabili demaniali all’interno dei quali sono ubicati”. Gli enti gestori dei Cpr si dividono tra grandi multinazionali e enti non-profit, come avevamo raccontato anche nel rapporto L’Affare Cpr. Per quanto riguarda i primi (tra i quali Ors, Martinina Srl ed Engel Italia Srl) si tratta di strutture che tra il 2014 ed il 2021 hanno gestito quasi 25 mila ingressi, oltre il 65% del totale. La Ors – multinazionale svizzera – è già citata da Amnesty International in un rapporto del 2015, e dall’Ong Droit de Rester nel 2018. Le due organizzazioni hanno denunciato le condizioni inumane in un centro di accoglienza austriaco e la cattiva gestione delle strutture di accoglienza di Friburgo. Attualmente, Ors Italia Srl gestisce il Cpr di Roma e, prima della sua chiusura temporanea, gestiva quello di Torino. Nel rapporto emerge anche la figura di Martinina Srl la quale non solo era già nota per gravi irregolarità nella gestione di un centro di accoglienza, ma è stata criticata sia per la sua gestione del Cpr di Milano che per quella del Cpr di Palazzo San Gervasio, “che ha infine attirato l’attenzione della procura del capoluogo lucano”. Anche la gestione di Cpr da parte di enti no-profit presenta gravi carenze e irregolarità: nel rapporto viene citato, tra gli altri, il caso della cooperativa Badia Grande gestisce, in regime di proroga, il Cpr di Bari Palese e che è stata esclusa dalla gara d’appalto del 2022 per via delle indagini avviate nei confronti del suo legale rappresentante e di altri responsabili della gestione del Cpr. In linea generale, i servizi erogati sono oltremodo carenti e le tutele minime. Ad esempio, si legge nel rapporto, accedere a servizi quali la mediazione linguistica, l’informativa legale, l’assistenza sociale o psicologica, la tutela legale e il diritto d’asilo è di fatto quasi impossibile dato che, ad esempio, si può disporre di un mediatore linguistico solo per mezz’ora a settimana, dell’informativa legale e dell’assistenza psicologica solo per nove minuti a settimana. Infatti “i centri di detenzione per stranieri sono strutture che hanno un impatto profondo sulla salute mentale delle persone. La condizione di privazione della libertà non associata alla commissione di un reato alimenta senso di ingiustizia e risentimento”. In aggiunta, oltre ai frequenti episodi di autolesionismo, fin dalla loro apertura, nei Cpr sono stati registrati 30 decessi. Secondo i risultati della ricerca condotta sul periodo 2018-2021, il costo complessivo del sistema di detenzione risulta essere di quasi 53 milioni di euro, il 72% dei quali relativi a pagamenti erogati agli enti gestori. 

Un secondo elemento importante emerso nel rapporto è la discrepanza tra la propaganda politica su espulsioni e rimpatri e la realtà dei fatti. Se si considera solamente lo scopo per cui i Cpr sono stati creati, si legge nel rapporto, tra il 2011 e il 2021 la percentuale dei provvedimenti effettivamente eseguiti non supera mai il 32% e, in ogni caso, anche i rimpatri effettuati presentano irregolarità che minano i diritti delle persone migranti. “Negli ultimi anni si rimpatria di meno ma in maniera più coercitiva [prediligendo l’utilizzo di voli charter], tant’è che la percentuale di persone rimpatriate dopo un periodo di detenzione cresce in maniera significativa”, emerge dal rapporto. Le persone che non vengono rimpatriate sono comunque destinate a rimanere in un limbo fatto di privazione della libertà personale, almeno fino alla decorrenza dei termini: il dato sul tempo di permanenza medio all’interno dei Cpr è sempre più lungo, anche se, a differenza di quanto sostenuto dal Governo, “all’aumento del tempo mediamente speso in detenzione non corrisponde tuttavia una maggiore efficacia della politica di rimpatrio”. Anche la nazionalità delle persone trattenute incide molto sulle probabilità di rimpatrio: ad esempio, tra il 2018 e il 2021, su un’incidenza media annuale di rimpatri del 48,3% sugli ingressi, le persone con maggiore probabilità di essere rimpatriate sono state di nazionalità tunisina (principalmente), egiziana e albanese. Mentre, nel medesimo quadriennio, coloro che erano di nazionalità algerina, gambiana, marocchina avevano meno probabilità di essere rimpatriati e di rimanere rinchiusi fino a decorrenza dei termini di detenzione. 

In conclusione, il quadro generale risulta essere oltremodo preoccupante per due motivi. Innanzitutto è evidente che la gestione privatizzata dei Cpr derivi, come è stato scritto nel rapporto, dalla progressiva deresponsabilizzazione: “nell’esternalizzazione di tale gestione, la pubblica amministrazione si auto-esautora e rifugge dalle responsabilità per la cattiva gestione e la violazione dei diritti”. In secondo luogo ci troviamo di fronte a uno scenario in cui il Governo punta sempre più a un’ibridazione del sistema di accoglienza, prevedendo la detenzione delle persone richiedenti asilo sulle zone di frontiera e maggiori difficoltà per gli esperti e le esperte legali di prestare assistenza e supporto alle persone rinchiuse.

2. È ancora possibile dire che i Cpr non sono carceri? 

Si chiamano centri, non carceri, e le persone recluse sono considerate trattenute, non detenute. Questo perché i centri di detenzione amministrativa sono strutture per persone che si trovano sul territorio dello stato senza un regolare permesso di soggiorno, e la privazione della loro libertà personale è giustificata dalla violazione di una mera norma amministrativa, non dalla commissione di un reato. Ma, nei fatti, le persone vivono da recluse, non posso uscire dalle celle, le strutture assomigliano a prigioni, le grate coprono anche il cielo e le condizioni di vita sono spesso peggiori di quelle degli istituti penitenziari. 

Un’inchiesta del quotidiano Domani, firmata da Giovanni Tizian e Nello Trocchia, conferma che il governo, nel potenziare il sistema, stia percorrendo questa via: i Cpr devono essere delle carceri con strumenti di sorveglianza sofisticati. Secondo quanto pubblicato da Domani, i primi progetti di fattibilità dei centri voluti dall’esecutivo ricorderebbero il “panopticon”, un modello carcerario progettato da Jeremy Bentham che dovrebbe garantire il massimo controllo con una presenza di personale minima. “L’occhio che tutto vede», scrivono Tizian e Trocchia, “l’incarnazione di un potere penetrante, diffuso, strumento di sorveglianza preso a modello da Michel Foucault nel suo celebre saggio “Sorvegliare e punire”.

Domani spiega che l’intenzione che emerge dai primi progetti è di creare edifici disposti a cerchio, con un nucleo centrale per i moduli abitativi, che siano “blindati” come le “celle di sicurezza”. Non è l’unico riferimento a elementi che ricordano le carceri – si legge – “i serramenti sono del tipo di sicurezza penitenziario”. Questo, svela l’inchiesta, per “renderli più resistenti a eventuali rivolte e tentativi di vandalizzarli”. Inoltre, “alle spalle di uno dei lati del panopticon saranno realizzati gli altri locali”, per le forze dell’ordine e il personale dell’ente gestore.

I Cpr funzionanti oggi sono nove, dopo la chiusura a marzo 2023 del centro di Torino per le proteste avvenute all’interno contro le condizioni di vita. Sono nove anche le strutture che dovrebbero essere progettate e realizzate dal ministero della Difesa ex novo, mentre due quelle da ristrutturare, per un totale di 20. Il decreto del 19 settembre 2023, n. 124 – lo stesso che ha prorogato il termine massimo di trattenimento a 18 mesi – all’articolo 21 delega infatti il ministero di Guido Crosetto per la costruzione e il rifacimento di queste strutture, che verranno considerate “opere destinate alla difesa e sicurezza nazionale”. 

I fondi previsti dal decreto però, secondo l’inchiesta di Domani, non sarebbero sufficienti a finanziare questo tipo di strutture. La dotazione è infatti di 20 milioni di euro per il 2023 e un milione di euro annui dal 2024, come contributo al funzionamento delle strutture. Mentre ogni modulo, scrivono Tizian e Trocchia, con la blindatura potrebbe costare fino a 20mila euro e, per contenere dalle 120 alle 300 persone, i moduli necessari non sarebbero meno di 100. Al costo dei moduli di circa 2 milioni, fanno notare i giornalisti, devono sommarsi tutte le altre spese per le forze dell’ordine, gli enti gestori, l’area mensa e, infine, i costi vivi della gestione. Secondo alcune fonti del quotidiano, il budget messo a disposizione dal Mef sarebbe quindi di 30-40 milioni di euro. 

Per costruire queste strutture potrebbero volerci almeno due anni ed esiste già un elenco ufficiale dei luoghi in cui potrebbero sorgere questi centri, anche se la lista è provvisoria. Al ministero dell’Interno, che aveva assicurato la costruzione in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili, è stato trasmesso l’elenco con le aree disponibili da nord a sud, pubblicato da Domani: Bolzano, Diano Castello o Albenga in Liguria, ad Aulla in Toscana, in Emilia Romagna è stata individuata Ferrara, per le Marche Falconara Marittima, poi Catanzaro, Castel Volturno e Brindisi, dove però esiste già un Cpr. Alcuni territori e sindaci, però, anche di centrodestra, hanno già protestato e precisato di non aver mai dato la disponibilità, ricordando che “non può esserci una decisione così calata dall’alto”.

 

Foto copertina via Twitter/Melting Pot Europa