Cpr: l’aumento dei tempi di permanenza disumano, vessatorio e costoso
I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) sono buchi neri in cui si verificano continue gravi violazioni dei diritti fondamentali dei migranti trattenuti. Si tratta di strutture gestite da società e cooperative private che, con i soldi dei contribuenti, fanno profitto sulla pelle delle persone.
Ora il governo, che già dopo il decreto Piantedosi, varato dopo la strage di Cutro, era intervenuto sulla materia per incentivare la costruzione di nuovi, si appresta ad approvare un nuovo decreto dove, tra le altre cose, si dovrebbe procedere più rapidamente all’apertura di nuovi centri e si interverrà per aumentare i tempi di detenzione delle persone migranti, portandoli fino a 18 mesi. Detenzione, serve ricordarlo, senza reato.
Un provvedimento inutile, che non serve a gestire il fenomeno migratorio, né ad aumentare i rimpatri, come ha lasciato intendere la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che sul tema era intervenuta negli ultimi giorni. Ma un provvedimento costoso. Dal punto di vista economico e umano.
Economico, per i contribuenti italiani. Per la gestione dei Cpr attualmente presenti in Italia sono state indette negli ultimi due anni gare d’appalto per oltre 50 milioni di euro. Un vero e proprio business, come abbiamo raccontato nel recente report “L’affare Cpr”, alle cui redini troviamo grandi multinazionali e cooperative che, nonostante le offerte al ribasso, traggono un costante profitto dalla gestione della detenzione amministrativa, a discapito dei diritti delle persone trattenute. L’apertura di ulteriori centri farà aumentare ancora questa spesa, in un momento storico in cui l’inflazione sta colpendo i cittadini con l’aumento di costi di tutti i beni, compresi quelli di prima necessità.
Un aumento dei costi che non si giustifica, come detto, neanche nell’efficienza dei Cpr come strumento di gestione delle politiche migratorie. Se si osserva la questione da un punto di vista di semplice efficacia del sistema, secondo i dati dell’ultimo rapporto del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, nel 2022 è stato effettivamente rimpatriato in media il 49,4% delle persone trattenute, e in alcuni centri le percentuali sono più basse: nel Cpr di Macomer (Nuoro) solo il 23% è stato rimpatriato, in quello di Roma il 25%. Percentuali rimaste invariate, nei 25 anni di centri per i rimpatri, nonostante l’aumento dei termini di trattenimento. Per tutti gli altri, invece, la detenzione è totalmente illegittima, così come ha ricordato il Garante nella relazione al Parlamento del 2021: “Tale privazione sia giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio: ciò rende illegittima la restrizione della libertà quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile”. Analogamente ingiustificata è la detenzione di coloro che non possono essere rimpatriati a causa della situazione di grande instabilità nei paesi di origine, che li metterebbe in pericolo di vita.
Da questo punto di vista, l’aumento a 18 mesi dei tempi di detenzione non cambierà nulla. I Cpr esistono ormai da 25 anni, un periodo di tempo sufficiente per sapere che le persone o vengono riconosciute o rimpatriate nelle prime settimane, oppure non si riuscirà più a farlo. Già in passato i tempi di permanenza erano di 18 mesi e i rimpatri erano percentualmente come negli anni successivi in cui i tempi erano stati ridotti drasticamente (come riportato nella tabella seguente, tratta dal rapporto di Cild “Buchi neri”, nella quale erano stati rielaborati i dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale).
Aumentare i tempi di detenzione, e portarli fino ad un anno e mezzo, apre inoltre una questione mai risolta. Benché esistano da un quarto di secolo, i Cpr, a differenza ad esempio di quanto avviene per le carceri, non hanno un proprio ordinamento, con norme di rango primario che ne regolino la vita interna e ne stabiliscano in maniera incontrovertibile i diritti. Questo si ripercuote proprio sull’esercizio di questi ultimi, che vengono violati in maniera sistematica, dagli enti gestori che limitano al massimo i diritti in nome del profitto e dalle istituzioni pubbliche che spesso vengono meno ai loro compiti di vigilanza: si assiste quindi a gravi violazioni del diritto alla salute, del diritto alla difesa legale, fino al diritto alla comunicazione. Insomma, anche da questo punto di vista i Centri di Permanenza per il Rimpatrio rappresentano dei buchi neri. Un fatto preoccupante già quando le persone sono trattenute in questo vero e proprio limbo giuridico per poche settimane, drammatico se dovranno rimanerci 18 mesi.
Una gestione efficace delle migrazioni non passa certo da un aumento dei Cpr e dei tempi di permanenza negli stessi. Riteniamo sia sempre più necessario e urgente ricorrere ad alternative all’irregolarità che consentano alle persone che qui vengono detenute di accedere a percorsi che possano portare ad una loro regolarizzazione. Questo anche al netto di chi finisce in questi luoghi che, a differenza della narrazione che si offre, spesso sono persone già inserite lavorativamente nel paese, con una famiglia, e che si trovano a perdere il permesso di soggiorno a seguito della perdita del lavoro. Un passaggio momentaneo nelle loro vite che ben diversamente potrebbe essere gestito.
Come Cild crediamo che sia necessario un superamento del sistema della detenzione amministrativa, sia per la totale inutilità di quest’ultima, ma soprattutto per la quotidianità dei trattamenti inumani e degradanti che ogni giorno si consumano all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio.