CPR: il diritto alla libertà di telefonare è davvero inviolabile?

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di Eleonora Costa

La libertà di corrispondenza telefonica è uno dei principi essenziali del trattenimento stabiliti dalla legge ed è strettamente correlata al diritto di difesa, di mantenimento dei vincoli familiari e in generale di comunicazione con il mondo esterno, rimanendo totalmente estranea alla detenzione amministrativa qualsiasi esigenza di isolamento da esso”.

Così si è espresso, a suo tempo, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private di libertà personale per sottolineare la necessità di garantire, anche all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), il diritto degli stranieri trattenuti a comunicare con il mondo esterno.

La libertà di corrispondenza telefonica costituisce, infatti, un diritto fondamentale stabilito dall’art. 15 della Costituzione italiana, strettamente connesso e propedeutico all’esercizio di altri diritti umani inviolabili, quali il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il diritto alla vita privata e familiare (art. 8 CEDU e art. 7 CDFUE).

Ciononostante, nel corso degli anni, si sono registrate prassi illegittime e riforme legislative che hanno reso i singoli CPR dei veri e propri buchi neri, ossia dei luoghi impenetrabili dove l’isolamento e il controllo – condizioni di per sé già intrinseche alla detenzione amministrativa – sono diventati totalizzanti.

Il quadro giuridico di riferimento 

In materia di detenzione amministrativa, l’art. 14, co. 2, D. Lgs. 286/98 (c.d. “T.U. Immigrazione”) rappresenta la norma ordinaria di riferimento, ai sensi della quale ai migranti trattenuti in attesa di espulsione deve essere assicurata in ogni caso la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno”.

Nello stesso senso, il D.P.R N. 394 del 1999, in attuazione del sopracitato T.U. Immigrazione, dispone che “oltre alla libertà di colloquio all’interno del centro e con i visitatori provenienti dall’esterno”, nei CPR debba essere garantita “la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della persona fermo restando l’assoluto divieto per lo straniero di allontanarsi dal centro”(art. 21, co. 1).

Dal canto suo, il c.d. Regolamento unico CIE (ora CPR) del 20 ottobre 2014, ha sempre garantito “le comunicazioni telefoniche con l’esterno, a mezzo di apparecchi telefonici fissi installati nel Centro in luoghi di libero accesso agli stranieri e in un numero non inferiore a un apparecchio per ogni quindici persone” (art. 4, co. 2, lett. f), senza prevedere – almeno fino alla Direttiva Lamorgese – alcuna limitazione di sorta. D’altronde, come rilevato dallo stesso Garante Nazionale, il “Regolamento unico dei Cie, pur prevedendo con un elevato grado di dettaglio gli oggetti non ammessi all’interno dei settori detentivi suscettibili di requisizione al momento dell’ingresso, non include esplicitamente tra gli effetti vietati i telefoni cellulari personali”.

Eppure, nonostante l’esistenza del quadro normativo appena esposto, il diritto alla libertà di corrispondenza degli stranieri trattenuti sembrerebbe avere una portata più teorica che pratica, risultando – nei fatti – in larga parte “svuotato” di contenuto ed effettività.

Il sequestro dei cellulari personali, il numero ridotto di apparecchi telefonici fissi e l’impossibilità di ricevere chiamate in entrata sono, infatti, solo alcune delle criticità (arbitrariamente implementate nei CPR) che giorno dopo giorno ledono la dignità umana dei migranti.

Le prassi illegittime riscontrate nei CPR

Come anticipato, la libertà di corrispondenza telefonica dei trattenuti prevista dalla normativa di riferimento è rimasta, nella maggioranza dei casi, lettera muta.

Lo dimostra l’evidente dissonanza fra il diritto vigente e una prassi che – anziché garantire – limita in tutti i modi il diritto dei migranti alla difesa, alle relazioni affettive, all’informazione e allo svago.

Nella maggior parte dei CPR, infatti:

–    i cellulari di proprietà dei trattenuti vengono sequestrati all’atto dell’ingresso nel Centro e presi in consegna dall’ente gestore che ne inibisce o limita fortemente l’uso per generiche e non meglio precisate esigenze di “tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”;

–    l’ente gestore consegna i telefoni cellulari per il tempo strettamente necessario ad effettuare telefonate e, comunque sia, con la fotocamera oscurata e senza accesso ad Internet. A tal proposito, le testimonianze di fotocamere “rotte di proposito per non far documentare le pessime condizioni” all’interno dei CPR parlano da sé;

–   gli apparecchi telefonici presenti nei Centri sono spesso insufficienti e comunque inferiori rispetto al numero minimo stabilito dalla legge;

–    i telefoni messi a disposizione dall’ente gestore sono, in ogni caso, utilizzabili solo tramite schede a pagamento. In definitiva, dunque, il diritto di corrispondenza telefonica nei Centri è subordinato alla disponibilità economica dei trattenuti, nonché alternativo all’accesso ad altri servizi, anch’essi condizionati al pocket money maturato.

Anziché migliorare, la situazione è poi degenerata durante la pandemia da Covid-19, che ha reso i CPR ancora più impenetrabili. L’applicazione delle misure di contenimento del contagio da Covid-19, infatti, ha comportato non solo l’isolamento fisico dei detenuti costretti alla quarantena fiduciaria, ma anche la totale sospensione dei colloqui difensivi.  

Proprio durante l’emergenza epidemiologica, peraltro: (i) è stata estesa la prassi del sequestro dei cellulari personali anche a CPR dove precedentemente non era praticata; e (ii) nella maggior parte dei Centri, le persone trattenute si sono viste negare la possibilità di effettuare videochiamate con i propri familiari e difensori legali.

A complicare ulteriormente il quadro, il 26 marzo 2020 è stata diffusa una Circolare del Ministero dell’Interno facente per la prima volta riferimento ad un generico “divieto di detenere negli alloggi i telefoni cellulari”, divieto che, tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico è rimasto privo di fondamento fino alla recente Direttiva Lamorgese.

In tale contesto è intervenuta, a portare un po’ di giustizia, l’Ordinanza del 15 marzo 2021 con cui il Tribunale di Milano ha accolto il ricorso ex art. 700 c.p.c. presentato da un richiedente asilo proveniente dalla Tunisia e trattenuto presso il CPR di via Corelli, volto alla restituzione del proprio telefono cellulare.

La portata innovativa della pronuncia, nonostante l’imposizione di alcuni limiti, è notevole: il Tribunale, infatti, ha stabilito che la libertà di corrispondenza dei migranti detenuti – per la realizzazione della quale è necessario assicurare i contatti con diverse categorie di soggetti (i.e. i familiari, il difensore legale, l’UNHCR, i ministri di culto, il personale della rappresentanza diplomatica o consolare del Paese di origine) –  non può essere adeguatamente garantita tramite la disponibilità di apparecchi, fissi o portatili, indistintamente presenti all’interno del centro.

Di conseguenza, il Tribunale di Milano ha ordinato alle autorità competenti, nonché all’ente gestore del CPR, di consentire allo straniero la detenzione e l’utilizzo del proprio telefono cellulare (pur secondo i limiti e le modalità indicate dall’articolo 7 del Regolamento Unico CIE per le visite all’interno del Centro).

Il divieto consacrato dalla recente “Direttiva Lamorgese”

In data 19 maggio 2022 è stata adottata, con decreto del Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, la Direttiva recante “Criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di permanenza per i rimpatri previsti dall’art. 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni”, che ha soppresso il Regolamento Unico CIE del 2014.  

Per quanto qui rileva, la Direttiva Lamorgese ha inasprito il controllo all’interno dei CPR nonché limitato la libertà di comunicazione degli stranieri trattenuti con il mondo esterno, cristallizzando una prassi – si è visto – ormai consolidata.

Le novità principali in materia di corrispondenza telefonica sono disciplinate agli artt. 4 e 5 della Direttiva, che introducono un vero e proprio divieto di libera detenzione di telefoni cellulari all’interno dei CPR.

Più precisamente, ai sensi dell’art. 4, lett. c): “il gestore assicura la custodia di effetti e risparmi personali degli stranieri, tenendo conto che all’interno delle aree di trattenimento del centro non è consentito introdurre ovvero detenere denaro, apparecchi di telefonia mobile o altre apparecchiature elettroniche”.

Il successivo art. 5 (rubricato “Corrispondenza telefonica”), invece, è volto a meglio precisare le modalità di utilizzo dei cellulari, cercando di contemperare – secondo la Relazione Illustrativa alla Direttiva – la necessità di assicurare la libertà di corrispondenza telefonica dei detenuti con asserite “esigenze di ordine e sicurezza”.

A tal proposito, la nuova disposizione prevede che lo straniero utilizzi prioritariamente apparecchi telefonici fissi installati nel Centro e/o telefoni cellulari o cordless messi a disposizione dal Gestore del Centro, secondo le modalità organizzative e gli orari prefissati nei singoli Centri.

Quanto al telefono cellulare personale, di cui, lo si ribadisce, “non è consentita la libera detenzione, all’interno del CPR”, è previsto che possa essere consegnato al trattenuto solo per consultare i numeri già contenuti in rubrica nonché, se privo della telecamera, per il tempo strettamente necessario ad effettuare le chiamate, ma ciò solo in caso di necessità e urgenza.

Infine, l’art. 5 stabilisce che:

–   la volontà tanto di effettuare quanto di ricevere telefonate deve essere preventivamente rappresentata dallo straniero ad un operatore del Centro; e

–   le telefonate sono effettuate “sotto vigilanza”, in spazi dedicati. 

Ciò, in palese contrasto con le raccomandazioni fornite dal Garante Nazionale nel rapporto “Norme e Normalità, secondo cui le comunicazioni, anche telefoniche, tra detenuti e mondo esterno  “non devono essere sottoposte a controlli o censure, a meno che tali misure siano disposte da un organo giudiziario allo scopo di tutelare interessi pubblici prevalenti”.

Conclusioni 

La recente Direttiva Lamorgese non fa che recepire e confermare quanto per anni è stato denunciato dalle associazioni per i diritti umani, ossia una vera e propria compressione del diritto alla libertà di comunicazione degli stranieri trattenuti nei CPR, spesso non giustificata dalla necessità di tutelare un interesse pubblico rilevante, né rispondente a criteri di necessità e proporzionalità.

Una simile compressione ha delle ripercussioni evidenti e incide pesantemente sulle vicende giuridiche dei migranti: basti pensare che la stessa si traduce spesso nell’impossibilità per i trattenuti di comunicare con il difensore di fiducia prima dell’udienza di convalida del trattenimento e, di conseguenza, nell’impossibilità di potersi avvalere di un’adeguata tutela legale in sede di audizione.

Emerge, così, il paradosso della detenzione amministrativa: una detenzione senza reato nell’ambito della quale gli stranieri – oltre ad essere privati della libertà personale pur non avendo commesso alcun crimine – non si vedono neppure attribuiti i diritti e le garanzie propri della materia penale. 

Come se non bastasse, le problematiche affrontate si inseriscono nel contesto di una ben più ampia e sistematica violazione dei diritti umani delle persone trattenute nei CPR.

Alla luce di tutto quanto sopra esposto, una cosa è certa: è tempo di una riforma complessiva della detenzione amministrativa che, finalmente, affronti in maniera più efficace e più umana il fenomeno migratorio.