La nuova direttiva Lamorgese sui “modi” del trattenimento nei Cpr

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A cura di Federica Borlizzi

“Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. […] Si determina, nel caso del trattenimento, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale.Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici […] non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”. (Corte costituzionale, sentenza n.105/2001)

 

Sono passati più di 20 anni da quando la Corte Costituzionale sancì il fatto che la detenzione amministrativa dei migranti, introdotta dalla c.d. Legge Turco-Napolitano (l. n.40/1998), fosse da considerarsi misura incidente sulla libertà personale e, come tale, da sottoporre alla duplice guarentigia dell’art.13 della Costituzione: riserva di legge e di giurisdizione. 

Sono passati più di 20 anni e, nonostante tale pronuncia, l’odiosa misura del trattenimento amministrativo gode di ottima salute, mantenendo intatto tutto il suo portato di strumento eccezionale che si pone al di fuori del perimetro costituzionale.

D’altronde non può che considerarsi misura eccezionale quella di una detenzione senza reato, che vive del doppio paradosso di esser privati della propria libertà pur non avendo commesso alcun crimine ma, nel contempo, di non vedersi neppure attribuite quelle garanzie (habeas corpus; giusto processo) e quei principi (tassatività, ragionevolezza, proporzionalità) proprie della materia penale.

Così come il contrasto al dettato costituzionale appare evidente laddove si pensi che non sembrano essere rispettate le garanzie stabilite dall’art.13 della Costituzione, che richiede espressamente come ogni misura limitativa della libertà personale debba avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione) e nei casi e nei modi stabiliti dalla legge (riserva di legge).

Non intendiamo in questa sede soffermarci sulla complessa questione della riserva di giurisdizione, ci interessa – a riguardo – solo evidenziare come in tema di trattenimento amministrativo questa sembri essere rispettata solo a livello “formale” ma non “sostanziale”. Appare, infatti, assurdo che eccetto casi particolari (come i richiedenti asilo) la convalida del trattenimento sia affidata non alla magistratura ordinaria ma ai giudici di pace che – tuttavia – per i cittadini italiani non hanno il potere di disporre misure privative della libertà personale.

Stando, invece, alla riserva di legge, è evidente come si assista da più di 20 anni a una palese violazione dell’art.13 della Costituzione, essendo i “modi” del trattenimento dei migranti nei Centri disciplinati non dalla legge ma da mere fonti di rango secondario.

Infatti, l’art.14, comma 2, del Testo Unico Immigrazione, come modificato dal d.l. n.130/2020, si limita ad affermare che lo straniero è trattenuto nel Centro “con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza, il pieno rispetto della sua dignità e la libertà di corrispondenza anche telefonica con l’esterno”. Disposizione che non è in grado di assolvere alla riserva di legge, non specificando le modalità con cui la privazione della libertà personale si sviluppi.

Di fatto, queste modalità sono state previste in fonti di rango secondario. In particolare, nel 2014, è stato adottato un decreto del Ministero dell’Interno (n.12700 del 20 ottobre 2014, c.d. Regolamento Unico CIE) che ha disciplinato gli aspetti più rilevanti della vita all’interno dei Centri. Disposizioni che, essendo contenute in un mero decreto, si sono caratterizzate per un elevatissimo grado di ineffettività, lasciando ampio e pericoloso margine discrezionale alle autorità amministrative.

Rispetto a ciò, gli studiosi più attenti hanno recentemente evidenziato come “sino a che saranno soltanto fonti secondarie a regolare i modi del trattenimento, mentre le fonti primarie si limitano a prescrizioni generiche e indeterminate, la violazione della norma costituzionale appare davvero eclatante”. 

Un avvertimento rimasto del tutto inascoltato, dovendosi tristemente constatare come, a distanza di 8 anni dall’adozione del Regolamento Unico CIE, il legislatore abbia deciso di intervenire sui “modi” del trattenimento amministrativo attraverso nuovamente una fonte di rango secondario.

Infatti, il 19 maggio 2022, la Ministra dell’Interno, Lamorgese, ha adottato, con Decreto, la Direttiva recante “Criteri per l’organizzazione e la gestione dei centri di permanenza per i rimpatri previsti dall’art.14 del d.lgs. n.286/1998 e successive modificazioni”, che ha soppiantato il vecchio Regolamento Unico CIE.

Nel prosieguo di tale articolo, analizzeremo le nuove disposizioni sotto il solo e complesso angolo visuale della tutela del diritto alla salute dei trattenuti, riservandoci di approfondire in un secondo momento tutte le modifiche introdotte dalla Direttiva Lamorgese.

Preme, però, evidenziare come il legislatore del 2022 abbia optato per una scelta coerente: consacrare, ulteriormente, il carattere eccezionale della detenzione amministrativa, mantenendola saldamente al di fuori del perimetro costituzionale.

 

Il diritto negato: la tutela della salute nei CPR

La Direttiva Lamorgese non intacca quella che può essere definita una vera e propria “extraterritorialità sanitaria” dei CPR ossia il fatto che l’assistenza sanitaria non sia affidata al Servizio Sanitario Nazionale (come avviene per gli istituti penitenziari) ma agli enti gestori. Si tratta di una privatizzazione del servizio che, nel corso del tempo, è stata duramente contestata dalla società civile e le cui problematiche sono state evidenziate dalla stessa Commissione De Mistura nel 2007, dal Comitato Nazionale della Bioetica nel 2013, dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.

D’altronde, l’affidamento ai privati dell’assistenza sanitaria ha portato a gravissime violazioni del diritto alla salute delle persone detenute nei CPR, a causa della totale assenza di adeguato personale medico convenzionato con l’ente gestore; di servizi di assistenza rudimentali e inadeguati; di veri e propri abusi nella somministrazione di psicofarmaci e tranquillanti.

Non è un caso che alcune delle morti avvenute nei CPR in questi ultimi anni (8 persone solo nell’ultimo biennio) siano da ricondurre alle gravi carenze del servizio sanitario privatizzato; alla totale assenza di un adeguato raccordo con il Sistema Sanitario Nazionale; più in generale, a strutture detentive che presentano un evidente carattere patogeno.

Emblematico, a riguardo, è il caso di Aymen Mekni, tunisino trentenne deceduto nel Centro di Caltanissetta, nel gennaio del 2020, in seguito a un malore. Proprio tale struttura siciliana era stata oggetto, nel novembre 2019, di una visita ispettiva da parte del Garante nazionale, che aveva rivelato una situazione di totale insalubrità degli ambienti, non monitorata dalla autorità sanitaria locale. Quest’ultima, peraltro, solo nel febbraio del 2020 aveva effettuato un sopralluogo nel Centro, giungendo alla conclusione che i fattori di rischio per la salute dei trattenuti erano tali da dover necessariamente programmare la chiusura del Centro (effettiva dal 17 aprile 2020) e l’avviso di una profonda ristrutturazione del CPR. Peccato che, nel frattempo, Aymen Mekni sia morto. Una morte rispetto alla quale, lo stesso Garante nazionale ha dovuto ammettere che “una più efficace sorveglianza e una maggiore tempestività di intervento sulla struttura avrebbero aiutato a fugare, almeno in parte, i dubbi sulle responsabilità delle istituzioni”.

I decessi avvenuti nei CPR, negli ultimi due anni, ci parlano anche di morti che si dovevano e potevano evitare, banalmente perché le persone non dovevano essere detenute in quei luoghi, essendo da considerarsi incompatibili con la vita in comunità ristretta. Qui l’elenco, solo per citarne alcuni, è lungo e doloroso: (i) Harry, ventenne nigeriano impiccatosi, nel giugno 2019, nel CPR di Brindisi, ritenuto idoneo al trattenimento nonostante il Centro di Salute Mentale di Bolzano avesse già attestato che soffrisse di gravi vulnerabilità psichiatriche, avendo tentato il suicidio precedentemente. La documentazione sanitaria di Harry è stata, però, visionata dal personale sanitario del CPR solo dopo l’avvenuto suicidio; (ii) Hossain Faisal, bengalese trentenne, morto nei terribili locali dell’Ospedaletto di Torino, nel luglio 2019. Anche lui era stato ritenuto idoneo al trattenimento, nonostante fosse in grave stato confusionale e, poi, posto per ben 5 mesi in (illegittimo) isolamento per i suoi problemi psichiatrici, seguendo una inaccettabile logica manicomiale; (iii) Orgest Turia, albanese ventottenne, trovato morto nel CPR di Gradisca, nel luglio 2020, per una presunta “overdose di metadone”. Ritenuto idoneo al trattenimento, nonostante il Garante nazionale abbia più volte evidenziato come le persone sottoposte a terapie richiedenti la somministrazione di metadone non possano essere trattenute nei CPR; (iv) Moussa Balde, ventenne della Guinea, suicidatosi – nel maggio 2021 – mentre si trovava in isolamento nei locali dell’Ospedaletto di Torino. Pochi giorni prima di essere rinchiuso nel CPR, Moussa era stato vittima di una violentissima aggressione a Ventimiglia, preso a colpi di spranghe e bastoni. Nonostante tale trauma viene detenuto nel Centro senza alcuna valutazione preliminare della sua idoneità psichica ma, anzi, sottoposto a illegittimo isolamento.

Harry, Hossain, Orgest, Moussa non dovevano essere detenuti nei CPR, le loro condizioni di salute dovevano farli ritenere, sin da subito, inidonei alla vita in comunità ristretta. Se ciò non è avvenuto è perché le visite di ingresso che dovevano attestare l’ idoneità al trattenimento sono avvenute in maniera approssimativa, senza premurarsi di acquisire le cartelle sanitarie; senza una valutazione sulla salute psichica della persona, spesso senza che fossero effettuate dalla competente azienda sanitaria locale; senza che – poi – l’autorità giudiziaria verificasse la presenza e il contenuto di tale certificato nel fascicolo della convalida. 

Prassi gravissime che non rappresentano l’eccezione ma, purtroppo, la regola.

 

La tutela del diritto alla salute nel vecchio Regolamento Unico CIE 

Il vecchio Regolamento Unico CIE sulla questione dell’idoneità al trattenimento si limitava ad affermare che lo straniero sarebbe dovuto entrare nel Centro previa visita medica effettuata da parte del medico della ASL o dell’azienda ospedaliera, che doveva accertare l’assenza di patologie evidenti che rendevano incompatibile l’ingresso e la permanenza nella struttura, quali malattie infettive o contagiose e pericolose per la comunità, stati psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative che non potevano ricevere cure adeguate in comunità ristretta (vecchio art.3, comma 1). Nel caso di elementi che potessero determinare l’incompatibilità alla vita in comunità ristretta non emersi nella visita iniziale, il personale medico convenzionato con l’ente gestore avrebbe dovuto richiedere una nuova attestazione di idoneità alla ASL competente, ponendo la persona -nelle more di tale valutazione- in una “stanza di osservazione” (vecchio art.3, comma 3). Inoltre, l’attestazione di idoneità al trattenimento doveva essere rinnovata ogni qualvolta lo straniero veniva trasferito in altro CPR. Ciò alla luce del fatto che tale valutazione doveva tener conto: (i) delle specificità di ciascun Centro, anche rispetto all’eventuale distanza da un pronto soccorso; (ii) delle eventuali patologie del singolo trattenuto (es. insufficienza cardiovascolare o renale), che potevano costituire motivi di incompatibilità relativa rispetto al trattenimento nella specifica struttura. Tale aspetto spiegava anche la ragione per la quale tale attestazione di idoneità doveva essere effettuata necessariamente da personale appartenente al distretto sanitario in cui insisteva il Centro che, oltre a garantire l’indispensabile imparzialità nell’operato, risultava in possesso di tutte le informazioni sui servizi sanitari presenti sul territorio e sull’eventuale insufficienza del singolo CPR di prestare cure mediche adeguate in relazione alle singole patologie dei detenuti.


Dunque, nonostante la privatizzazione dell’assistenza sanitaria, il vecchio Regolamento Unico CIE assegnava dei compiti ben precisi all’autorità sanitaria pubblica, che risultava – sulla carta – l’unica competente ad effettuare tali attestazioni di idoneità ma anche a prestare l’assistenza psichiatrica all’interno dei Centri.

D’altronde, l’assistenza sanitaria privatizzata nei CPR doveva considerarsi “complementare” alle prestazioni garantite dal Servizio Sanitario Nazionale, implicando un necessario raccordo con quest’ultimo. Raccordo che doveva essere garantito da indispensabili Protocolli d’intesa tra Prefettura competente e ASL locale, previsti espressamente dal vecchio Regolamento Unico CIE che predisponeva anche un apposito schema per la loro redazione (allegato 1-d). Da quest’ultimo emergeva chiaramente l’importanza di tali Protocolli che avrebbero dovuto garantire: (i) che l’attestazione di idoneità fosse svolta dall’autorità sanitaria locale; (ii) un adeguato e tempestivo accesso alle strutture sanitarie della ASL sia per eventi emergenziali sia per le visite specialistiche; (iii) delle periodiche attività ispettive del personale tecnico-sanitario dell’azienda ospedaliera per verificare la qualità sia dei servizi sanitari previsti nei CPR sia del cibo somministrato; (iii) una adeguata raccolta di dati, da parte delle ASL, sulla sorveglianza epidemiologica per il controllo delle malattie infettive nei CPR.

Nei fatti, il sistema delineato dal Regolamento Unico CIE per la tutela del diritto alla salute dei detenuti nei CPR non ha funzionato. L’ineffettività di tali disposizioni contenute, non a caso, in una mera fonte di rango secondario è stata l’ordinaria prassi che quotidianamente si riscontra nei Centri.

Come testimoniato da decine di rapporti della società civile, tra cui il nostro “Buchi Neri”, la sistematica violazione di tale scarno quadro normativo ha comportato conseguenze gravissime per i diritti delle persone detenute. Infatti: (i) le valutazioni di idoneità, in molti casi, non venivano effettuate dalla competente ASL ma dal medico convenzionato con l’ente gestore o dal personale sanitario della struttura di provenienza dello straniero (istituto penitenziario; hotspot, nave quarantena); (ii) in ogni caso, le visite mediche erano effettuate in maniera sommaria, senza vagliare la documentazione sanitaria della persona e, nell’ultimo periodo, si limitavano addirittura a una certificazione di negatività al COVID 19; (iii) in caso di nuovi elementi sopravvenuti che poteva determinare l’incompatibilità della persona detenuta alla vita in comunità ristretta, il medico dell’ente gestore spesso non richiedeva una nuova valutazione da parte della competente ASL ma si limitava lui stesso, in maniera illegittima, ad accertare tale idoneità; (iv) nella stragrande maggioranza dei casi, il certificato di idoneità al trattenimento non era presente nel fascicolo della convalida dinanzi all’autorità giudiziaria, nonostante la giurisprudenza abbia ritenuto tale attestazione “condizione ineludibile di validità del trattenimento” (Corte di cassazione, ordinanza n.15106/2017).

Tutto ciò avveniva anche nei CPR dove era formalmente in vigore il Protocollo d’intesa tra Prefettura e ASL. Protocolli rimasti sulla carta, non solo per l’attestazione di idoneità ma anche per quanto riguardava: (i) il tempestivo accesso alle visite mediche esterne; (ii) l’assistenza psichiatrica (con l’abuso di psicofarmaci somministrati, in molti casi, dal personale sanitario dell’ente gestore, senza alcuna prescrizione medica da parte della ASL); (ii) le attività ispettive (sulla salubrità dei locali, lo stato dei servizi sanitari e la qualità del cibo) mai realizzate dall’autorità sanitaria pubblica.

La salute nei CPR era (ed è) terra di nessuno, in cui vige lo scaricabarile delle responsabilità tra istituzioni (Prefettura, Questura, ASL) ed enti gestori.

Nel mezzo, ancora una volta, la carne viva delle persone detenute. 

 

La tutela del diritto alla salute nella nuova Direttiva 2022

La Direttiva Lamorgese riscrive completamente l’art.3 del vecchio Regolamento Unico CIE, con un intervento che presenta qualche luce ma anche molte ombre.

L’attestazione di idoneità alla vita in comunità ristretta

Con specifico riferimento all’attestazione di idoneità al trattenimento, si prevede che lo straniero acceda al Centro “previa visita medica effettuata di norma dal medico della ASL o dell’azienda ospedaliera, disposta su richiesta del Questore -anche in ore notturne- volte ad accertare l’assenza di patologie evidenti che rendano incompatibile l’ingresso e la permanenza del medesimo nella struttura, quali malattie infettive contagiose e pericolose per la comunità, disturbi psichiatrici, patologie acute o cronico degenerative – rilevate attraverso indagine anamnestica o sintomatologica, nonché mediante la documentazione sanitaria disponibile– che non possono ricevere le cure adeguate in comunità ristretta. La certificazione medica deve comunque attestare la compatibilità delle condizioni di salute o di vulnerabilità ex art.17, comma 1, del d.lgs. n.142/2015 dello straniero [richiedente asilo] con la vita in comunità ristretta […]. Per lo straniero che accede ai sensi dell’art.6, comma 2, del d.lgs. n.142/2015, la visita medica viene effettuata anche ai sensi dell’art.7, comma 5, dello stesso decreto legislativo (nuovo art.3, comma 1).

Le novità di tale disposizione sono sostanzialmente quattro

  • l’intervento della ASL territorialmente competente viene relativizzato, con l’aggiunta di quel “di norma” che troverà spiegazione nel prosieguo della trattazione; 
  • si individua il soggetto (ossia il Questore) responsabile di richiedere tale visita medica; 
  • si specificano le modalità con cui la visita medica dovrebbe avvenire;
  • si recepisce nella fonte di rango secondario ciò che la legislazione ordinaria (d.lgs. n.142/2015) già prescrive per i richiedenti asilo, specificando che l’attestazione di idoneità dovrà tener conto delle vulnerabilità elencate nell’art.17, comma 1, della normativa (le quali, tra le altre: presenza di disabili, anziani, genitori singoli con figli minori, vittime di tratta; persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture) e che costituiscono, a norma dell’art.7, condizioni di inidoneità del richiedente alla vita in comunità ristretta. 

Ulteriore innovazione è la totale riscrittura dell’art.3, comma 2, che attualmente prevede: “nel caso in cui lo straniero abbia fatto accesso al Centro senza aver effettuato tale visita medica da parte di un medico della ASL o dell’azienda ospedaliera, la stessa dovrà essere ripetuta, entro 24h, da parte del medico della ASL con cui la Prefettura sede del CPR ha stipulato apposito protocollo (nuovo art.3, comma 2). 

Di fatto, le disposizioni analizzate sono le uniche ipotesi in cui viene garantita che la visita medica sia effettuata dalla ASL su cui insiste il CPR, consentendo – così – una valutazione non solo assoluta ma anche relativa dell’idoneità al trattenimento.

Infatti, la Direttiva Lamorgese, in maniera non poco controversa, ha deciso di recepire le prassi difformi che si verificano in tema di attestazione di idoneità, istituzionalizzandole. In particolare, si prevede che:

  • Per lo straniero proveniente da un istituto di pena, “la certificazione sia rilasciata dalla struttura sanitaria dell’istituto” (nuovo art.3, comma 1);
  • Per lo straniero proveniente da altro CPR, addirittura non sia necessaria una nuova certificazione di idoneità, essendo bastevole che una copia della scheda sanitaria sia consegnata al responsabile sanitario della struttura di destinazione (nuovo art.3, comma 6);
  • Per lo straniero proveniente da una provincia diversa da quella in cui si trova il Centro, la visita medica sia “effettuata a cura di un medico della struttura sanitaria pubblica con la quale il Prefetto competente ha stipulato apposito protocollo d’intesa sulla base dello schema di cui allegato 1-e)” (nuovo art.3, comma 11).

In tutte e 3 tali ipotesi, ciò che viene meno è la valutazione di idoneità relativa al trattenimento ossia il fatto di verificare la presenza anche di eventuali patologie del singolo detenuto che possono costituire motivi di incompatibilità relativa rispetto al trattenimento nella specifica struttura, in considerazione della qualità dell’assistenza medica garantita e dell’eventuale distanza dai presidi sanitari esterni.

Dell’importanza di tale valutazione di idoneità relativa aveva parlato lo stesso Garante nazionale, censurando la prassi di attestazioni mediche effettuate da parte di personale sanitario non appartenente al distretto del CPR di destinazione. Infatti, il Garante aveva sottolineato come tale prassi comportasse il fatto che il medico certificatore non potesse che limitarsi a verificare l’assenza di elementi di incompatibilità assoluta, senza poter effettuare valutazioni specifiche in ordine alla capacità della struttura di assegnazione di prestare cure adeguate in presenza di eventuali patologie non gravi da determinare l’attestazione di inidoneità. Per il Garante, la chiara indicazione che dovessero essere le strutture sanitarie del territorio di riferimento a realizzare la visita di idoneità di ingresso nei CPR appariva desumibile dal fatto che il vecchio Regolamento Unico CIE richiedeva alle Prefetture di sottoscrivere con le competenti Aziende sanitarie locali appositi accordi di cooperazione territoriali, anche per l’organizzazione di un simile servizio.

Peccato che la Direttiva Lamorgese abbia deciso di stravolgere in negativo tale già non ottimale quadro, arrivando ad azzerare – per le specifiche categorie suddette – le valutazione di idoneità relativa ed addirittura prevedendo, nel caso di straniero proveniente da altra provincia, un apposito protocollo che i Prefetti dovranno stipulare con le ASL su cui non insistono i CPR ma da cui la persona proviene. 

Di fatto, i problemi che questa scelta potrà creare sono evidenti: se un trattenuto proveniente dal carcere, da altro CPR o da altra provincia è affetto, ad esempio, da insufficienza cardiovascolare o renale potrà essere considerato compatibile con la vita in comunità ristretta, perché non si terrà conto delle specificità della struttura di destinazione e, magari, della sua distanza da un pronto soccorso. Risulta assurdo, a titolo esemplificativo, che sia la ASL di Frosinone a poter ritenere una persona idonea al trattenimento nel CPR di Palazzo San Gervasio, non conoscendo né la qualità dei servizi sanitari offerti nella struttura e nel territorio di riferimento né la distanza dai presidi ospedalieri più vicini (per la cronaca, nel caso di specie: 48 km dall’Ospedale “San Giovanni” di Melfi e di 65 km dall’ Ospedale “San Carlo” di Potenza).


I compiti del personale sanitario convenzionato con l’ente gestore 

Si badi bene che l’azzeramento, per i casi suddetti, della valutazione di idoneità relativa appare non una dimenticanza ma una precisa scelta del legislatore di posticipare la stessa ad un momento successivo all’ingresso della persona nel Centro.

Infatti, la Direttiva Lamorgese riscrive anche le responsabilità del personale medico convenzionato con l’ente gestore e i suoi compiti durante la permanenza dello straniero nella struttura.

In particolare, si prevede che successivamente all’ingresso nel Centro, lo straniero sia sottoposto allo screening medico da parte del medico responsabile della struttura sanitaria presente nel Centro per: (i) la valutazione complessiva del suo stato di salute; (ii) l’accertamento di eventuali vulnerabilità tra i richiedenti asilo ex art.17, comma 1, del d.lgs. n.142/2015 (es. disabili, anziani, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta; persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture); (iii) l’accertamento di eventuali condizioni di inidoneità alla permanenza nel Centro tenuto conto delle caratteristiche strutturali dello stesso o dell’eventuale necessità di predisporre visite mediche specialistiche o percorsi diagnostici e terapeutici presso le competenti strutture sanitarie pubbliche. (nuovo art.3, comma 3).

Gli elementi di novità rispetto alla disposizione previgente risiedono, da un lato, nell’aver introdotto – anche in questo caso – la valutazione delle condizioni di vulnerabilità per i richiedenti asilo, dall’altro nell’aver posto in capo al medico convenzionato con l’ente gestore la valutazione di idoneità relativa al trattenimento. Quest’ultima scelta è da ritenersi non poco controversa se si tiene conto del fatto che il personale sanitario del CPR sicuramente non può assicurare le garanzie di imparzialità né avere la stessa conoscenza dei servizi sanitari locali che potrebbe avere l’ASL locale.

In ogni caso, la Direttiva Lamorgese specifica – come era auspicabile – le modalità con cui dovranno essere effettuate le visite mediche da parte del personale sanitario convenzionato con l’ente gestore, evidenziando come durante le stesse particolare attenzione dovrà essere posta alla ricerca attiva di segni o sintomi di specifiche condizioni morbose, segni di trauma o esiti di torture, secondo la Linea Guida “I controlli alla frontiera – La frontiera dei controlli” sviluppata dall’Istituto Nazionale Salute Migrazioni e Povertà – INMP (nuovo art.3, comma 3).

Rimane ferma, inoltre, la necessità che il personale medico convenzionato con l’ente gestore richieda una nuova valutazione di idoneità alla competente ASL in caso di elementi sopravvenuti che potrebbero determinare l’incompatibilità della persona con la vita in comunità ristretta, con l’importante aggiunta che – nelle more di tale valutazione – se il trattenuto è posto in un locale di osservazione sanitaria bisogna darne traccia in un “apposito registro cronologico” (nuovo art.3, comma 4).

 

La presenza delle FF.OO. durante le visite mediche e l’accesso alla scheda sanitaria

Ancora degna di nota sono delle aggiunte che vorrebbero tentare di affrontare gravi prassi illegittime che si sono verificate in alcuni CPR, ossia la presenza delle forze dell’ordine durante le visite mediche e le difficoltà dei trattenuti ad accedere alla propria scheda sanitaria.

Quanto al 1° aspetto, la costante presenza delle FF.OO. durante le visite mediche dei detenuti in alcuni CPR (tra cui, ad esempio, Torino, Palazzo San Gervasio) è una gravissima prassi che comporta la completa assenza di “medical confidentiality”, con tutto ciò ne deriva anche in termini di emersione di abusi e maltrattamenti. Non a caso, quando il Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), nel 2017, effettuò una ispezione nel Centro di Torino e riscontrò tale prassi, la censurò duramente e raccomandò alle autorità italiane di garantire la riservatezza degli esami medici. Monito che, a distanza di anni, è rimasto inascoltato. Per tentare, dunque, di arginare tale fenomeno, la Direttiva precisa che la presenza delle forze dell’ordine potrà essere ammessa solo in presenza di esigenze particolari e su richiesta del medico (nuovo art.3, comma 5). Tuttavia, un maggiore coraggio nella formulazione della norma nella direzione della tutela dei diritti dei trattenuti e più banalmente nel rispetto delle prescrizioni del CPT (date all’Italia, nel 2019, sullo stesso problema ma nel diverso ambito degli istituti penitenziari), avrebbe dovuto comportare la precisazione che tale presenza dovesse avvenire quantomeno senza il controllo uditivo delle forze dell’ordine.

Rispetto all’ambito delle cartelle sanitarie, la Direttiva cerca di intervenire sulle gravi difficoltà di accesso della persona detenuta e del proprio legale alla cartella sanitaria durante il trattenimento nel Centro, circostanza che – peraltro – incide gravemente sullo stesso diritto di difesa. 

A riguardo si specifica che il trattenuto possa, durante la permanenza, chiedere che gli venga rilasciata la propria scheda sanitaria (nuovo art.3, comma 6) mentre rimane inalterata la previsione (spesso inattuata) della consegna della stessa al momento del rilascio della persona dal CPR.

Tuttavia, sulle modalità con cui la scheda sanitaria debba essere redatta nulla viene precisato, nonostante questa sia spesso compilata in maniera del tutto sommaria. A riguardo sarebbe stato auspicabile che si recepissero le raccomandazioni date dal CPT nel 2017 e rinnovate dal Garante nazionale nel 2021.

 

Non accontentarsi delle briciole

Forse la più importante novità introdotta dalla Direttiva Lamorgese risiede nell’aver previsto espressamente che “la certificazione di idoneità alla vita in comunità ristretta e le relazioni del servizio socio-sanitario del Centro vengano consegnate all’ufficio di polizia all’interno del CPR affinché vengano inserite nel fascicolo da sottoporre all’autorità giudiziaria in sede di convalida e di proroga e trasmesse, ove si tratti di richiedenti asilo, alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale” (nuovo art.3, comma 7). Si tratta di una previsione di non poco conto, che potrà essere un importante strumento in mano ai legali delle persone detenute per tentare di porre fine all’ignobile prassi che vede l’autorità giudiziaria (in particolare i giudici di pace) ignorare del tutto l’assenza di tale valutazione di idoneità, nonostante la chiarezza della giurisprudenza sul punto.

Ma è altrettanto evidente come non ci si possa accontentare di queste briciole, di questi piccoli correttivi a un sistema di trattenimento incostituzionale ed inumano, che provoca atroci sofferenze a migliaia di persone che, ogni anno, rimangono intrappolate nei suoi ingranaggi.

L’orizzonte non può che rimanere quello del porre fine alla becera e polimorfa misura della detenzione amministrativa, utilizzando ogni arma legale ma anche dando un concreto sostegno alle persone trattenute nei Centri che – quotidianamente – mettono in campo pratiche di resistenza.

Sarebbe importante, ancor di più dinanzi a un futuro che non appare roseo, riaprire quella fase che, più di dieci anni fa, portò allo smantellamento di quasi tutti gli allora CIE presenti sul territorio nazionale.

Infatti, nel 2011, in seguito alla circolare dell’allora Ministro dell’Interno Maroni che impediva l’accesso nei CIE a giornalisti/società civile e con tempi di trattenimento che avevano raggiunto i 18 mesi, i detenuti nei Centri iniziarono delle importanti proteste, con il sostegno di associazioni e movimenti sociali. Proteste che, in alcuni casi, ricevettero anche il “beneplacito” dei Tribunali, che riconobbero la scriminante della legittima difesa ad alcuni trattenuti imputati di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale (es. Tribunale di Crotone, sentenza n.1410/2012).

Quella fu l’unica occasione, in 24 anni di vita della detenzione amministrativa, in cui si mise davvero in crisi il sistema del trattenimento nei Centri. Un recente passato che ha ancora tanto da insegnarci per il prossimo futuro.

 

Foto copertina via Twitter/Altreconomia.