La guerra che si combatte anche sui social (e ai social)
Venerdì 4 Marzo, in Russia, Vladimir Putin ha introdotto una legge nel tentativo straordinario di mettere al bando l’informazione nell’era dei social. Contemporaneamente ha bandito Facebook/Instagram, ha chiuso Twitter ed ha approvato una nuova legge che parifica il giornalismo ad un reato penale: qualsiasi giornalista trovato ad aver pubblicato “fake news” sulla guerra in Ucraina rischia fino a 15 anni di carcere.
Anche TikTok ha confermato il blocco dello streaming live e del caricamento di nuovi contenuti in Russia dopo che il Cremlino ha criminalizzato la diffusione di quelle che ritiene essere notizie false sulla sua invasione dell’Ucraina. TikTok ha affermato su Twitter che la sicurezza degli utenti e dei dipendenti della piattaforma video è la sua massima priorità. Allo stesso modo, la BBC, la CNN, la RAI e altri media globali hanno temporaneamente sospeso i servizi giornalistici in Russia per proteggere i loro giornalisti.
Come tante altre cose dall’inizio di una nuova guerra in Europa, anche questa notizia appare incredibile, senza precedenti e, in particolare, assurda. Assurda in quanto sembra difficile ipotizzare che negli anni dei social e dei contenuti generati direttamente dagli utenti sia possibile vietare qualsiasi forma di informazione.
Si noti la contrapposizione negli schieramenti nell’utilizzo delle piattaforme social: da un lato Putin che – nonostante abbia dominato la scena della disinformazione social negli ultimi 20 anni – ricorre a metodologie tradizionali di controllo della informazione. Dall’altro, il popolo ucraino in guerra che si avvale di smartphone per documentare la barbarie. E’ questo, infatti, il ruolo di quel fenomeno noto come “OSINT” ossia ricerca e raccolta di informazioni open source da verificare e mettere a disposizione della resistenza militare ucraina e dei media internazionali. Ogni carro armato russo viene filmato e la sua posizione registrata. Ogni camion e ogni movimento di truppe viene tracciato, filmato e aggiunto a mappe e database open source. La guerra dei civili ucraini è soprattutto questa: milioni di persone che registrano ogni azione dei loro invasori russi. È una straordinaria fonte di informazioni in tempo reale che, con l’aiuto di questo esercito di volontari, vengono trasformate in strategia militare.
A questo tipo di narrazione (ed a tutti i rischi di mitizzazione degli eventi che ne consegue) che esalta il ruolo della libertà di informazione che i social mettono a disposizione dei singoli, deve, tuttavia, essere associata una riflessione più ampia sul ruolo e sulla importanza che hanno raggiunto le piattaforme social, sulle metodologie di monetizzazione dei contenuti (che nel caso specifico spesso finiscono per escludere da qualsiasi forma di ritorno economico chi rischia la vita per raccogliere informazioni) e sul modo, estremamente elastico, con cui queste ultime garantiscono ovvero restringono i diritti di informare e conoscere indipendentemente da qualsiasi norma di tipo regolatorio e, quindi, in ultima analisi, in modo del tutto arbitrario.
Gli eventi degli ultimi anni ci raccontano, giusto per citare un esempio eclatante, che il Presidente degli Stati Uniti d’America e i suoi seguaci sono “scomparsi” dalla informazione social al volere del CEO di Twitter. Naturalmente, nella occasione dell’assedio di Capitol Hill, siamo tutti d’accordo nel convenire che l’atto di Twitter fosse dovuto e opportuno. E purtuttavia, non si può negare che in qualche modo deve scuotere e intimorire l’idea che la voce di un capo di governo possa essere “spenta” al volere della piattaforma ed al di fuori di qualsiasi quadro normativo che ne indichi le regole e le condizioni. Se figure tanto importanti possono scomparire dalla informazione sui social cosa potrà accadere a minoranze ritenute “scomode”?
Dovrebbe essere la società democratica a determinare quando ad una piattaforma sia consentito dare e togliere voce a politici all’interno di regole chiare e ben definite senza che sia necessario il ricorso ad una discrezionalità sempre mutevole. In questo senso si sta muovendo l’Unione Europea con il disegno di legge “Digital Services Act” (DSA) che ha l’obiettivo di creare uno spazio digitale più sicuro in cui siano tutelati i diritti fondamentali di tutti gli utenti dei servizi digitali. Naturalmente, è la bontà delle istituzioni largamente intese ed il tessuto democratico di un paese in cui quelle istituzioni agiscono che, in ultima analisi, garantiscono che una norma che può sicuramente incidere sulla libertà di espressione di soggetti politici non sia applicata in modo censorio ma in relazione alla effettiva violazione di una regola democratica e condivisa. Per questo, oggi più che mai, è necessaria la consapevolezza del funzionamento di questo tipo di strumenti e della fragilità delle democrazie di fronte ad un uso distorto nella fornitura di informazioni tramite piattaforme social.