L’accoglienza che fa bene: il modello Sprar
Siamo ormai abituati a sentir parlare di immigrazione, di sbarchi, di arrivi dei migranti in toni apocalittici: “è un’invasione”, dicono. E ancora: “gli immigrati ci rubano il lavoro”, “gli immigrati portano malattie”, “gli immigrati vengono trattati meglio degli italiani”.
Nonostante i tanti, troppi pregiudizi infondati (e smentibili coi dati), nonostante gli episodi incresciosi come quello delle barricate a Goro, però, c’è anche un’Italia diversa, che si impegna concretamente nell’accoglienza.
Disseminati nel territorio italiano ci sono infatti numerosi esempi positivi di accoglienza ed inclusione di immigrati, che, in alcuni casi, hanno addirittura aiutato alcuni paesi a ripopolarsi o a riprendere vecchi mestieri quasi abbandonati dalla popolazione autoctona.
Per capire meglio, facciamo un passo indietro.
L’emergenzialismo del sistema di accoglienza italiano
Ci sono diverse fasi: prima fra tutte la primissima accoglienza, che avviene dopo lo sbarco sul territorio italiano e consiste nel trasferimento dei richiedenti asilo in centri – che prima erano chiamati Centri di Primo Soccorso e Accoglienza ma ora sono sempre più spesso riconfigurati come hotspot (con tutte le drammatiche conseguenze del caso, recentemente denunciate in un rapporto di Amnesty International); qui le persone soggiornano, quantomeno in teoria, solo pochi giorni.
In seguito si passa alla prima accoglienza – durante la quale i richiedenti protezione internazionale sono ospitati in centri – che possono essere di grandi, medie o piccole dimensioni – per alcuni mesi (sempre in teoria, però, visto che i tempi di permanenza sono in realtà drammaticamente lunghi). Queste strutture sono i cosiddetti CDA (Centri Di Accoglienza) e CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo), a cui si aggiungono le numerosissime strutture straordinarie che sono state create – in un’ottica evidentemente emergenzialista da cui non si riesce ad uscire nonostante le tante promesse – negli ultimi anni, e cioè i famigerati CAS (Centri d’Accoglienza Straordinari). Basti pensare che solo a Roma si è passati da poco più di 100 strutture e 3000 posti nel 2015 a oltre 300 strutture e quasi 8000 posti (con un problema concreto di sovraffollamento) nel 2016.
L’accoglienza integrata negli Sprar
Poi ci sono i cosiddetti Sprar, che rappresentano indubbiamente un sistema positivo (per quanto sempre perfettibile) di seconda accoglienza. Lo Sprar – e cioè il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati – consiste in una rete di enti locali (382 nel triennio 2014-2016), che gestiscono “progetti di accoglienza integrata”, accedendo così al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Sono oltre 21.000 i posti messi a disposizione nel 2015 e già più di 26.000 nel 2016, con una crescita incredibile in pochi anni (seppur comunque ancora – paradossalmente – residuale rispetto all’accoglienza straordinaria).
L’idea centrale è proprio quella di costruire un sistema di accoglienza “integrato”, sia nel senso di impegnarsi a garantire una progettualità di integrazione complessa sia nel senso di essere dislocati a livello locale: la gestione dei progetti (che sono preferibilmente di piccole dimensioni) è infatti affidata dal Ministero degli Interni attraverso appositi bandi ai Comuni – circa 800 quelli coinvolti in tutta Italia -, i quali a loro volta si appoggiano ad associazioni e cooperative.
Come l’accoglienza salva i piccoli paesi italiani
Dei Comuni coinvolti nella rete Sprar, circa la metà sono realtà di piccole e medie dimensioni ed è proprio in alcuni di questi paesi che la presenza dei richiedenti asilo ha avuto risultati particolarmente positivi.
Prima di tutto bisogna nominare il famoso caso di Riace, paesino di circa 2mila abitanti in provincia di Reggio Calabria dove, grazie alla presenza del progetto Sprar che accoglie circa 165 persone, molti richiedenti asilo si sono stabiliti nel paese, ripopolando le case abbandonate, imparando la lingua e cimentandosi in mestieri a rischio di abbandono. Insomma, una spinta di vita, forza e giovinezza (come racconta il bel reportage della BBC).
Un’altra bella esperienza viene da Satriano, comune di circa 3mila abitanti in provincia di Catanzaro, colpito da disoccupazione giovanile e conseguente emigrazione verso il nord Italia, popolato quindi da molte persone anziane. Qui il progetto Sprar, partito nel 2014, prevede 22 posti. Molti dei nuovi arrivati hanno trovato lavoro soprattutto nei piccoli negozi, evitandone la chiusura, alcuni hanno invece cominciato un corso professionale di operatore socio-sanitario per poter assistere gli anziani, ed altri ancora lavorano nei campi attorno al paese.
Sono molti gli esempi di recupero di mestieri che ormai stavano scomparendo. Si può portare l’esempio di Santorso, paese in provincia di Vicenza dove, grazie ai 39 posti assegnati nel progetto Sprar, alcuni immigrati hanno cominciato a lavorare in una sartoria di Schio; o l’esempio di Trento, che ospita 149 persone nel progetto Sprar e ha permesso l’attuazione di diverse esperienze lavorative, come l’assunzione di un ragazzo in un panificio del centro storico di Trento, lavoro che alcuni giovani italiani, soprattutto per gli orari richiesti, spesso rifiutano.
Un altro esempio può essere Asti, dove gli ospiti del progetto Sprar (44 persone), si sono dedicati alla semina, alla raccolta ed al confezionamento del mais otto file, varietà tipica piemontese, valorizzando quindi le eccellenze agro-alimentari locali. Anche a Valderice, comune di circa 12mila abitanti in provincia di Trapani, le 60 persone ospitate nel progetto Sprar hanno partecipato ad un progetto di produzione di prodotti locali, in un terreno confiscato alla mafia di circa 9mila metri quadrati; i frutti di questo lavoro vengono poi venduti nei mercati o utilizzati nei centri d’accoglienza.
La presenza degli Sprar nei paesi può inoltre portare gli enti locali a garantire il funzionamento dei servizi pubblici anche in quelle zone in cui, a causa dello spopolamento, essi non venivano assicurati. È questo il caso di Santa Marina, comune di circa 3mila abitanti in provincia di Salerno, dove l’arrivo dei richiedenti asilo e dei loro figli in età scolare in una frazione vicina ha indotto il comune ad attivare un servizio di scuolabus per tutti i bambini della zona. O come a Chiesanuova, comune di circa 200 abitanti in provincia di Torino, in cui la presenza dei beneficiari del progetto Sprar ha richiesto il mantenimento della scuola materna che stava per chiudere e delle corse di bus che stavano per essere cancellate. Anche in Sant’Alessio in Aspromonte, paesino di circa 300 abitanti in provincia di Reggio Calabria, è stata la presenza dei figli dei richiedenti asilo – una ventina di immigrati, tra cui alcuni ora impegnati a mantenere aperto il prestigioso laboratorio di falegnameria del centro storico – a richiedere la continuazione del servizio scolastico. Un ultimo esempio che vale la pena di essere nominato, tra i tanti citabili, è quello del progetto Sprar di Capua, comune di circa 20mila abitanti in provincia di Caserta. Qui gli ospiti sono 35 ed è stato attivato un laboratorio di restauro di mobili antichi; dopo l’acquisizione di queste preziose competenze, alcuni ospiti hanno quindi aiutato nel recupero delle mobilie del Duomo di Capua.
Oltre questi esempi specifici, bisogna considerare che ogni struttura d’accoglienza presente in qualsiasi territorio costituisce un elemento importante per far girare l’economia locale. Ogni centro d’accoglienza ha bisogno di operatori che vi lavorino, quindi viene favorita l’occupazione delle persone che vivono nei territori dove ci sono i centri. Ogni bisogno materiale delle persone ospitate – si pensi al cibo o ai prodotti per l’igiene personale (saponi, shampoo, ecc.), o ai prodotti per la casa, ed in generale tutti i beni che servono a far vivere una comunità di persone – è soddisfatto da aziende del luogo, stimolando così il lavoro di supermercati, mercati, alimentari, panifici, e negozi in generale.
L’accoglienza fa bene
Questi sono esempi che vanno da sud a nord, da ovest a est del nostro Paese, a testimoniare che ovunque, se c’è volontà ed apertura verso queste realtà, si possono creare situazioni di buona accoglienza e scambio. Insomma: un accoglienza che fa bene tanto a chi accoglie quanto a chi viene accolto.
Approfondimento a cura di Matilde Bonatti.