“L’odio non è un opinione”: la ricerca sul fenomeno dell’hate speech online
Lo scorso 17 marzo si è parlato di Hate Speech online con la presentazione di una ricerca realizzata da Cospe, nell’ambito del progetto europeo BRICKS contro il razzismo e la discriminazione su web. Le conclusioni della ricerca, la prima condotta in Italia, sono state presentate nel corso di una conferenza stampa che ha visto partecipare anche la Federazione nazionale della Stampa Italiana, Articolo 21, Carta di Roma.
Con lo sviluppo del social media, dei siti, del social network, il web è diventato un terreno fertile al fenomeno del hate speech: oggi con Internet è molto più semplice rendere pubblica la propria opinione, anche se razzista e discriminatoria.
Alcuni ambiti sono particolarmente critici, spiega la ricerca che nel 2014 ha rilevato 700 episodi di intolleranza contro i migranti, i rifugiati e le minoranze, una cifra che è aumentata nel 2015.
Ma “l’odio non è un opinione”, è stato detto dai relatori: benché sia diventato un fenomeno diffuso, non va trattato né come normale né come accettabile. Non si può parlare di libertà di espressione quando nuoce alla dignità o alla sicurezza di altre persone.
I giornalisti e tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’informazione sono i primi interessati dall’hate speech: l’evoluzione della professione passa anche dall’imparare a gestire i commenti dei loro lettori, monitorandoli e, talvolta, moderandoli.
Ma i commenti d’odio riguardano anche ognuno di noi e c’è bisogno di uno sforzo collettivo per combattere questi atteggiamenti: per questo è importante lavorare per sensibilizzare al tema nelle scuole, nella comunicazione e nella formazione per social media manager.
Per questo, a partire da questa settimana, Cospe e le altre organizzazioni lanciano una campagna europea per “porre l’attenzione sulla necessita di impedire la diffusione dell’odio e promuovere un uso consapevole della rete”, chiedendo di utilizzare l’hashtag #silencehate.
L’odio si combatte. Anche online.