Edward Snowden al Festival del Giornalismo il 17 aprile
Il prossimo 17 aprile Edward Snowden, il whistleblower che ha svelato lo scandalo NSA, sarà ospite (in collegamento) del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, in un evento speciale organizzato dalla CILD.
Con lui la documentarista Laura Poitras, che ha vinto un Oscar per Citizenfour, il documentario su Snowden, e Ben Wizner, avvocato di Snowden che lavora per l’American Civil Liberties Union.
Il giornalista Fabio Chiusi, che modererà l’incontro, racconta i temi del dibattito e del perché è importante che si parli di privacy e sicurezza anche in Italia.
Nella percezione del pubblico italiano, il Datagate può sembrare un ricordo.
Nella realtà, tuttavia, gli effetti dello scandalo della sorveglianza digitale di massa della National Security Agency statunitense e dei suoi alleati, e la sua sostanza, sono al centro del dibattito globale su che sarà della nostra privacy e delle nostre libertà su Internet.
Dopo il Pulitzer, dopo l’Oscar, il gesto di Edward Snowden – divulgarne i documenti top secret, mettendoci la faccia – continua a risuonare nel dibattito politico, a partire da Stati Uniti e Gran Bretagna. In entrambi i paesi, sono le rivelazioni dell’ex contractor NSA ad avere innescato un grado di trasparenza senza precedenti nell’operato dell’intelligence, e soprattutto una richiesta di ulteriore trasparenza – perfino dallo scialbo rapporto parlamentare UK delle scorse ore – in regimi di sorveglianza che si vorrebbero riformati. Male, ma riformati: il dibattito c’è, ed è vivo.
E certo, è anche pericoloso. Quando David Cameron chiede di vietare la crittografia, e Barack Obama lo smentisce senza convincere, o forse non lo smentisce affatto, il pensiero corre alla Cina che chiede altrettanto, non ai leader del mondo libero.
Ma è grazie a Snowden che ora colossi come Apple e una miriade di concorrenti minori competono per fornire la cifratura migliore, idealmente inscalfibile: dopo lo scandalo, i prodotti “a prova di NSA” hanno buon mercato. Soprattutto, è grazie a Snowden che si può anche solo concepire un’idea di resistenza collettiva, per quanto sparsa e difficile, al mostro della sorveglianza globale. Che, a leggere i dettagliatissimi resoconti dei suoi apologeti, è sempre a norma di legge, o quasi, e dunque accettabile, normale. Con degli eccessi da limare, ecco: ma normale.
Ciò che ci ha fatto comprendere Snowden, invece, è che serve una rivoluzione nel modo in cui concepiamo il rapporto tra sicurezza e libertà su Internet.
Bisogna rovesciare la prospettiva, non aggiustare la vista: la sorveglianza di massa non è efficace, non funziona, comporta sistematicamente abusi dei diritti di milioni di innocenti e, come conseguenza logica, una società fondata sul sospetto, la delazione e la trasparenza totale dei governati nei confronti dei governanti – e delle multinazionali del nuovo petrolio, i nostri dati.
Se tutto questo è vero, suggerisce Snowden, bisogna avere il coraggio di provare a immaginare una convivenza diversa, un rapporto diverso tra ciò che è lecito sapere di noi e ciò che invece deve rimanere nascosto alla vista dei governi e di chi vuole trasformare le nostre preferenze in pubblicità personalizzate.
Questo sostanzialmente dice la sua vicenda: bisogna opporsi all’idea che una intelligence con l’obiettivo di controllare tutto per sapere tutto sia compatibile con una democrazia, una qualunque idea di democrazia, nell’era digitale.
Lo si è visto anche nelle più recenti rivelazioni, sulla sorveglianza totale – di metadati e contenuti – delle comunicazioni di interi paesi da parte della Nuova Zelanda. Non che le servissero: è che quello è il prezzo per sedere al tavolo dei ‘Five Eyes’, con Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia e Canada – altro fronte caldo dello scandalo.
Sapere tutto, dunque, per imitazione, per stare con chi vuole sapere tutto. È una logica folle, la stessa che anima le parole di chi, come il direttore dell’FBI, vorrebbe inserire una backdoor in ogni strumento tecnologico che usiamo, così da consentire alle spie di non rimanere all’oscuro nemmeno delle comunicazioni più protette.
La stessa di chi punisce gli hacktivisti con condanne severissime e poi si circonda di hacker di Stato che sabotano e manomettono computer e router e sostanzialmente ogni prodotto o rete informatica sia necessario manomettere, anche per scopi che spesso sembrano avere davvero poco a che fare con il contrasto del terrorismo e la tutela della “sicurezza nazionale”.
Ma lo abbiamo visto dopo Charlie Hebdo: sono le parole magiche per giustificare ogni tipo di intervento repressivo e censorio. Se oggi li sappiamo riconoscere un po’ meglio, e un po’ prima, forse è anche grazie a Snowden.
E se finora le riforme hanno tardato, e spesso traspare dall’opinione pubblica una certa rassegnazione per l’idea di avere oramai perduto per sempre la propria privacy digitale, ora che Wikipedia si è unita agli attivisti nelle cause legali contro la NSA non è detto che il movimento di protesta, finora tutto sommato tiepido, non alzi la voce. O, quantomeno, non ottenga qualche risultato concreto.
Oltre al principale, già consegnato alla storia: i documenti di Snowden sono di chiaro, evidente interesse pubblico.
Banale, ma non per chi – tutti i governi occidentali, sostanzialmente – ancora rifiuta il suo appoggio a Snowden. Che no, non sta per tornare a casa. Non può: una norma del 1917 lo condannerebbe a un processo farsa, una replica di quello toccato in sorte a Chelsea Manning, variante più variante meno.
E non c’è bisogno di martiri: c’è bisogno di buone leggi, che tutelino davvero i whistleblower, a partire da quelli che come Snowden hanno operato chiaramente nell’interesse del pubblico.
Perché senza Snowden il dibattito degli ultimi due anni e quello che stiamo avendo ancora oggi non ci sarebbero stati. E chissà quale rete abiteremmo.
Fabio Chiusi è un giornalista freelance (Repubblica, L’Espresso, Wired) e blogger che scrive regolarmente di censura e sorveglianza su Internet e del complesso rapporto tra tecnologie digitali, politica e società. Ha conseguito un “Master of Science” in Filosofia della Scienza presso la London School of Economics, ed è Fellow al Centro Nexa su Internet e Società.
Nel 2014 ha pubblicato il volume Critica della democrazia digitale. La politica 2.0 alla prova dei fatti (Codice Edizioni).