Cittadinanza italiana: un Referendum per ridurre i tempi di attesa
– Di Marco Biondi
La coda dell’estate ha portato a riaccendersi in Italia il dibattito sulla concessione della cittadinanza per le persone nate o cresciute in Italia da genitori stranieri, o qui arrivate da adulte e ormai stabili. Il 6 settembre è stato lanciato da una serie di associazioni e alcuni partiti politici il referendum sulla cittadinanza. Sono necessarie 500mila firme entro il 30 settembre affinché il referendum possa essere indetto a giugno 2025.
Come dichiarato a Lapresse da Sonny Olumati, Vicepresidente di “Italiani Senza Cittadinanza, questa proposta referendaria ha l’obiettivo di portare “da dieci a cinque anni i tempi di attesa e di residenza per diventare cittadini”.
La normativa in vigore stabilisce infatti che la cittadinanza italiana possa essere concessa al cittadino straniero legalmente residente nel territorio della Repubblica da almeno 10 anni (salvo diverse tempistiche previste in casi specifici), tempo che verrebbe dimezzato, com’era previsto dalla legislazione prima del 1992 e com’è stabilito in diversi altri Stati UE. Ai fini della concessione della cittadinanza, oltre alla residenza ininterrotta in Italia (che questo Referendum propone di ridurre a 5 anni) resterebbero invariati gli altri requisiti già stabiliti dalla normativa vigente e dalla giurisprudenza, quali: la conoscenza della lingua italiana, il possesso di adeguate fonti economiche, l’idoneità professionale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica.
In Italia le persone in possesso di questi requisiti che potrebbero beneficiare direttamente o indirettamente (figli minori conviventi) dell’intervento proposto sono circa 2,5 milioni.
“Ci aspettiamo che chi in questi giorni si è detto favorevole a una riforma della legge sulla cittadinanza appoggi questo referendum. Alla retorica del “prima gli italiani”, rispondiamo con “Italiani prima”. Nonostante il dibattito estivo che ha visto anche partiti della maggioranza favorevoli a una revisione della norma, crediamo che non ci siano le condizioni in parlamento per una nuova legge e questa legislatura rischia di essere l’ennesima senza che venga messo mano alle regole per ottenere la cittadinanza italiana. Mettiamo a disposizione uno strumento concreto che è quello referendario, con il protagonismo delle associazioni degli italiani senza cittadinanza, con un punto molto chiaro: dimezzare a 5 anni i tempi per l’ottenimento della cittadinanza.
Parliamo di 2 milioni e duecentomila cittadini stranieri che ad oggi sarebbero nelle condizioni di ottenere la cittadinanza, più i loro figli, circa 500 mila bambine e bambini. Molti di più di quelli che sarebbero interessati dallo ius scholae, circa 500mila persone, e dallo ius soli che riguarderebbe circa un milione e mezzo di persone. Una riforma semplice ma anche rivoluzionaria”, ha dichiarato a Repubblica Riccardo Magi, Segretario di +Europa che, insieme ad altri, ha depositato in cassazione il referendum.
Il riferimento iniziale di Magi è probabilmente rivolto a Forza Italia partito che, attraverso le parole del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, durante il mese di agosto, aveva per primo riacceso il dibattito dichiarandosi favorevole all’introduzione dello Ius Scholae, una norma che legherebbe l’ottenimento della cittadinanza italiana al compimento di un ciclo di studi (o anche più di uno, su questo il coordinatore di Forza Italia non si era pronunciato e in molti, anche nel suo partito, in passato avevano fatto riferimento alla possibilità di aver completato almeno 8 anni di frequenza scolastica), con “la possibilità di dare la cittadinanza ai giovani che abbiano completato il corso di studi con successo, e ribadisco con successo, e dunque siano culturalmente italiani, regola peraltro più giusta e più severa di oggi che favorirà l’integrazione”, ha sottolineato. La proposta del leader di Forza Italia era stata respinta dalle altre forze della maggioranza di Governo, Fratelli d’Italia e Lega, e l’11 settembre si sono allineati bocciando un emendamento sullo Ius Scholae alla Camera.
In un’intervista al Giornale, il Ministro dell’Interno Giuseppe Piantedosi si era detto contrario, affermando che non ci sono altri paesi europei che applicano lo Ius Scholae ma, come riporta Carlo Canepa su Pagella Politica, questo principio è presente in forme diverse in 4 Paesi dell’Unione Europea: Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia. Inoltre, è fuorviante affermare che l’Italia sia il Paese che concede più cittadinanze, infatti, il grande numero di pratiche deriva dai lunghi tempi burocratici che porta alla loro accumulazione, spiega Eleonora Camilli su La Stampa: “Il riferimento è alle statistiche Eurostat, che comparano il numero di nuovi cittadini all’interno dei singoli stati Ue. L’ultima stima, che rileva i dati dal 2013 al 2023 vede il nostro Paese tra i primi posti per concessioni di cittadinanze. Un picco è stato rilevato proprio nell’ultimo anno di dati disponibili: nel 2022 infatti, i cittadini con background migratorio che hanno acquisito la cittadinanza italiana sono oltre 200mila, più di quanto successo in Francia, Germania e Spagna. Eppure i ricercatori che questi dati li analizzano e studiano da anni mettono in guardia dal leggere nella statistica un elogio al buon funzionamento delle leggi italiane. Innanzitutto perché si tratta di una comparazione tra Paesi che non solo hanno leggi e metodi di acquisizione della cittadinanza diversi, ma anche una diversa storia migratoria”.
“Nel lungo periodo il numero delle cittadinanze acquisite è proporzionato al numero dei migranti stabili. Ma cambiano tempi e modi – spiega Ennio Codini, responsabile scientifico Europa, Paesi terzi e legislazione di Fondazione Ismu -. In Italia uno straniero adulto aspetta almeno dieci anni, in Francia cinque. E’ chiaro che ci siano sfasature: per intenderci noi abbiamo accumulato negli anni una presenza di immigrati in attesa di cittadinanza, mentre altri Paesi hanno già evaso nel tempo queste richieste. Consideriamo anche che l’immigrazione di massa, in casi come quello della Francia, è iniziata molti anni prima che da noi”.
Dunque se in altri Stati sono già alla terza, quarta, quinta generazione di stranieri, ormai cittadini, nel caso italiano il fenomeno si sta stabilizzando adesso. Chi chiede la cittadinanza oggi in Italia o è nato almeno 18 anni fa nel nostro Paese o è arrivato in età adulta da non meno di un decennio. Tempi lunghi si prevedono ormai anche per i casi di matrimonio e ricongiungimento familiare. Secondo Codini il dibattito su una possibile riforma è più che mai necessario. «Lo ius scholae ha una sua ragionevolezza non solo perché accorcia i tempi ma perché valorizza la funzione della scuola come luogo di educazione civica – spiega -. Inoltre il legame tra l’adempimento dell’obbligo scolastico e l’ottenimento della cittadinanza potrebbe anche aiutare a contrastare la dispersione, un fenomeno molto presente tra gli alunni stranieri».
Nel 2015 si era parlato di ius culturae, con una legge approvata nel 2015 dalla Camera, ma poi bloccata al Senato, che proponeva che i minori stranieri giunti in italia prima dei 12 anni di età potessero ottenere la cittadinanza italiana dopo aver frequentato cinque anni di scuola nel nostro Paese.
La legge sulla cittadinanza italiana è una legge che nel 1992 nasce già superata, priva di visione, incapace di leggere allora i segnali dei profondi cambiamenti sociali, demografici, economici e culturali di un paese destinato a diventare, negli anni a venire, uno dei principali approdi dei flussi migratori verso l’Europa, come scritto da Laura Liberto nell’ebook di CILD “30 (anni) senza lode), pubblicato nel 2022. Da tempo immemore, con dibattiti su una possibile riforma che pongono le proprie fondamenta su anni di mistificazioni e disinformazione, non c’è mai stata la concreta opportunità di ottenere risultati concreti come lo “Ius Soli” o lo “Ius Culturae”. Riformare una legge che privilegia il principio legato alla discendenza rispetto ai criteri legati alla nascita o alla residenza stabile in Italia contribuirebbe a rimuovere alcuni degli ostacoli posti a persone di fatto italiane che non lo sono solamente a causa di norme anacronistiche e discriminatorie, che costringono le persone – minori che studiano nelle scuole italiane o adulti che da tempo vivono qui – a rinunciare ad esempio a opportunità di studio o di lavoro perché si è inchiodati al rigido requisito della continuità residenziale, all’impossibilità di accesso ai concorsi pubblici, riservati a chi possiede lo status di cittadino.