Il caso Assange: un pericoloso precendente per il giornalismo

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Di Marco Biondi

A seguito di un calvario giudiziario durato più di un decennio, Julian Assange è tornato in Australia da uomo libero dopo 1901 giorni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh nel Regno Unito e aver dichiarato la propria colpevolezza per uno dei capi di imputazione di cui era accusato.

Rischiava 175 anni di carcere per aver pubblicato prove di crimini di guerra, abusi dei diritti umani e violazioni statunitensi in tutto il mondo. Oggi si è dichiarato colpevole di un reato per aver pubblicato informazioni di interesse pubblico per le quali ha vinto premi giornalistici in tutto il mondo ed è stato candidato al Premio Nobel per la pace ogni anno negli ultimi dieci anni. Questo costituisce un pericoloso precedente“, ha detto l’avvocata Jennifer Robinson, come riportato da Euronews.

I Pubblici ministeri statunitensi sostengono che il fondatore di Wikileaks abbia violato la legge sollecitando l’hackeraggio di reti di computer per entrare in possesso di informazioni riservate e pubblicando indiscriminatamente segreti statali, compresi i nomi non censurati di coloro che fornirono informazioni all’esercito degli Stati Uniti, mettendo in pericolo la loro incolumità nei propri Paesi. Le ragioni del processo contro Julian Assange sono state tuttavia principalmente politiche. Il suo modello di attivismo e giornalismo ha esposto al mondo i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani compiute dagli Usa nelle “Guerre al Terrore”.

Nella piattaforma Wikileaks, fondata nel 2006,  furono pubblicati milioni di documenti governativi — tra cui i giganteschi fascicoli relativi agli orrori del campo di prigionia di Guantanamo nonché alle guerre in Afghanistan — con il famoso video “Collateral Murder” — ed in Iraq. Tra gli altri “scoops” famosi, in ordine sparso: la pubblicazione di circa mezzo milione di messaggi inviati tramite cerca-persone durante l’11 settembre; la documentazione della pressione esercitata dall’amministrazione Obama per garantire anche all’estero l’impunità agli ufficiali che avevano praticato tortura sotto Bush.

I documenti erano stati forniti dall’allora soldato Chelsea Manning, arrestata in Iraq e condannata per whistleblowing dopo aver trascorso 3 anni in diverse prigioni militari degli Usa prima che avesse inizio un processo nel 2013. Come scritto da Philip Di Salvo, “La vicenda Manning è diventata un crocevia di elementi che spiegano alcune delle questioni fondamentali dei nostri tempi e proprio quella sentenza è emblematica per diverse ragioni. Il carcere imposto a Manning indica chiaramente il clima fosco che avvolge il whistleblowing e il giornalismo investigativo negli Usa, negli anni in cui l’“amministrazione più trasparente della storia” americana ha messo sotto indagine, ai sensi dell’Espionage Act, più whistleblower di quanti non abbiano subito la medesima sorte dalla Prima guerra mondiale in avanti. Comparando atti di giornalismo allo spionaggio, se non al terrorismo”. Nessuno dei responsabili dei crimini di guerra rivelati da Manning ha subito un processo, l’unica persona a pagare è stata la whistleblower, condannata nel 2013 a 35 anni di carcere prima di essere graziata nel 2017 dall’ex Presidente Barack Obama. 

Il calvario giudiziario era iniziato nel settembre 2010, quando un pubblico ministero svedese aveva riaperto le indagini per un caso di violenza sessuale che era stato lasciato cadere poche settimane prima. Il caso aveva come protagonista proprio Julian Assange, accusato di aver molestato e violentato due donne durante una sua visita estiva in Svezia.

Assange non è mai stato formalmente accusato perché non è mai stato interrogato dalle autorità svedesi, che comunque avevano emesso un mandato di arresto internazionale, in esecuzione del quale Assange — che si trovava a Londra — è stato arrestato dalla polizia inglese, a cui si era presentato spontaneamente, e quindi ristretto nella prigione di Wandsworth per dieci giorni. Assange era stato poi rilasciato su cauzione, sotto condizioni piuttosto stringenti (e cioè: ritiro del passaporto e obbligo di firma ma anche braccialetto elettronico e coprifuoco notturno), e aveva iniziato la sua battaglia giudiziaria contro l’estradizione verso la Svezia. Il fondatore di Wikileaks nutriva infatti il (fondato) timore che da lì sarebbe poi stato successivamente estradato negli Stati Uniti per essere processato per i crimini di spionaggio di cui lo accusava un’indagine segreta del Grand Jury. I suoi appelli nelle Corti britanniche erano però stati tutti vani. Nel giugno 2012 era infine arrivato il definitivo rifiuto della Corte Suprema.

Poco dopo questo rifiuto, in una notte del giugno 2012, Assange aveva infranto il suo coprifuoco per attraversare Londra e rifugiarsi nell’ambasciata dell’Ecuador. Dopo un paio di mesi, il titolo del suo soggiorno in quello che, secondo il diritto internazionale, è da considerarsi suolo ecuadoriano era stato formalizzato, venendogli infatti riconosciuto asilo politico. La motivazione? Il concreto rischio di negazione di giusto processo prima in Svezia e poi negli Stati Uniti (riconoscendo la forte probabilità di tale seconda estradizione).

L’idea originaria era di trovare il modo di portare Assange in Ecuador, ma ciò si era rivelato impossibile (nonostante siano stati presi in considerazione i metodi più disparati, compreso quello di nascondere Assange dentro una valigia). Questo per via dell’assedio della polizia inglese, che aveva immediatamente circondato l’edificio quando Assange vi era entrato, tenendolo sotto continua sorveglianza.

Il 5 febbraio 2016 il Gruppo di Lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite aveva reso pubblica la propria Opinione sul caso Assange: 17 pagine per affermare che il fondatore di Wikileaks era stato arbitrariamente detenuto dalla Svezia e dal Regno Unito, valutando che la privazione di libertà di Assange fosse classificabile come detenzione arbitraria di “categoria III” (e cioè dovuta a una grave violazione del diritto a un giusto processo). L’opinione aveva sollevato un forte dibattito e critiche sul carattere arbitrario della definizione di “detenzione”.

Il 12 aprile 2019, Assange era stato arrestato a Londra su mandato di cattura degli Stati Uniti ed è stato detenuto in un carcere britannico di massima sicurezza solitamente utilizzato per i terroristi e i membri di gruppi di criminalità organizzata rischiando l’estradizione negli Stati Uniti e una condanna fino a 175 anni in un carcere americano di massima sicurezza.

Lo scorso 20 maggio, L’Alta corte di Londra ha stabilito che Assange aveva diritto di ricorrere in appello contro la sua estradizione negli Stati Uniti, firmata dal governo britannico.

La libertà del fondatore di Wikileaks è conseguenza di una campagna globale che ha coinvolto ong, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Questa mobilitazione ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che hanno condotto a una soluzione equa per entrambe le parti in causa.

Nel 2022 le principali redazioni internazionali che hanno collaborato con WIkileaks nel 2010 (Guardian, New York Times, Le Monde, Der Spiegel ed El País) hanno firmato una lettera chiedendo al Presidente Biden di ritirare le accuse di spionaggio contro Assange per aver ottenuto e pubblicato materiale classificato. Come spiegato da Valigia Blu,l’amministrazione Obama-Biden, in carica durante la pubblicazione di WikiLeaks nel 2010, si è astenuta dall’incriminare Assange, spiegando che avrebbe dovuto incriminare anche i giornalisti delle principali testate. La loro posizione dava importanza alla libertà di stampa, nonostante le scomode conseguenze. Sotto Donald Trump, tuttavia, la posizione è cambiata. Il Dipartimento di Giustizia si è basato su una vecchia legge, l’Espionage Act del 1917 (concepito per perseguire potenziali spie durante la prima guerra mondiale), che non è mai stata utilizzata per perseguire un editore o una testata”.

Secondo Seth Stern, director of advocacy della Freedom of Press Foundation, “è una buona notizia che il Dipartimento di Giustizia abbia messo fine a questa imbarazzante saga, ma è allarmante che l’amministrazione Biden abbia sentito il bisogno di ottenere una dichiarazione di colpevolezza per il presunto crimine di ottenere e pubblicare segreti governativi. È quello che fanno i giornalisti investigativi ogni giorno. L’accordo non aggiunge altro tempo di prigione o punizione per Assange, è puramente simbolico. L’amministrazione avrebbe potuto facilmente lasciar cadere il caso, ma ha invece scelto di legittimare la criminalizzazione della condotta giornalistica di routine e incoraggiare le future amministrazioni a seguire l’esempio. E hanno fatto quella scelta sapendo che Donald Trump non avrebbe voluto altro che trovare un modo per sbattere i giornalisti in prigione”, ha dichiarato.

Nonostante la fine della detenzione di Julian Assange sia una notizia da celebrare, la persecuzione giudiziaria per mano degli Stati Uniti ha posto un pericolosissimo precedente legale che mette ulteriormente a rischio il mondo del giornalismo, dato che i giornalisti potrebbero essere processati sotto l’Espionage Act quando ricevono e pubblicano  materiale classificato dai cosiddetti whistleblowers.

Secondo il barometro di Reporters senza Frontiere, seppure la Norvegia, la Danimarca e la Svezia siano nel podio dell’indice della libertà di stampa, e  nonostante l’approvazione di una nuova legge sulla libertà dei media nell’Unione Europea, nell’Occidente “i politici stanno cercando di ridurre lo spazio del giornalismo indipendente”. Per quanto riguarda invece il Regno Unito, l’associazione segnala l’inadeguato livello di protezione fornito ai giornalisti scappati da altri Paesi, specialmente quelli fuggiti dall’Iran. Lo scorso gennaio, la maggioranza dei deputati statunitensi ha approvato il Press ACT, una legge federale a difesa della stampa, che, in attesa dell’approvazione del Senato, proibirebbe alle forze dell’ordine federali di citare in giudizio informazioni protette dal lavoro dei giornalisti o da dispositivi e account personali, aiutando a proteggere i giornalisti che rischiano condanne per essersi rifiutati di rivelare le loro fonti nei tribunali federali o nelle inchieste del Congresso. Questa legge rappresenta un miglioramento necessario alla tutela legale dei giornalisti e delle loro fonti negli Usa, ma al contempo vari Stati hanno proposto o approvato leggi nazionali  che limitano l’accesso dei giornalisti agli spazi pubblici.