Salvare vite non è un reato. Il caso Iuventa, 7 anni dopo.

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di Marco Biondi

Salvare vite non è reato. Dopo 7 anni, la Procura di Trapani ha chiesto il non luogo a procedere in riferimento all’accusa verso l’equipaggio dell’imbarcazione Iuventa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I 24 indagati erano membri delle ONG Jugend Rettet, Medici Senza Frontiere e Save the Children, attive nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo centrale.

Jugend Rettet è una piccola organizzazione non governativa (ONG) fondata da un gruppo di giovani studenti tedeschi, colpiti da questa caccia alle streghe scatenata a partire dal 2015 e sostenuta dalla narrazione che vedevano queste organizzazioni come “Taxi del mare”.
Tra le conseguenze di queste indagini avviate senza alcun fondamento, vi sono le ingenti spese che l’Ong ha dovuto sostenere per la difesa processuale e il fatto che ormai la propria imbarcazione non sia più utilizzabile, arrugginita dai 7 anni di fermo dopo aver salvato più di 23 mila persone in poco più di un anno.

L’Avvocata Francesca Cancellaro, una dei rappresentanti legali di Iuventa Crew, intervistata da Melting Pot ha parlato di carenze sistematiche presenti nel sistema giudiziario italiano che hanno portato alla violazione dei diritti fondamentali e al mancato rispetto delle garanzie minime del giusto processo, come il “fatto che soltanto il 3% dell’intero fascicolo delle indagini è stato tradotto, o al fatto che durante gli interrogatori sono stati convocati e chiamati ad operare come interpreti delle persone che non erano assolutamente qualificate per farlo”.
Il legale Nicola Canestrini, come riportato dal Manifesto, ha ribadito l’inattendibilità del trio di testimoni dell’accusa sin dal principio, e ha prodotto una corposa mole di materiali che mostravano come i salvataggi incriminati fossero stati realizzati in stretta cooperazione con il centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma. La difesa ha anche criticato l’approccio dell’accusa: “Siamo contenti che la procura abbia cambiato idea dopo 7 anni. Tuttavia, non è così che funziona uno stato di diritto. Le accuse dovrebbero essere formulate solo dopo un’indagine approfondita e la raccolta di tutte le prove disponibili. Iniziare un processo senza le dovute basi è ingiusto e comporta un onere indebito per gli imputati”.

A differenza delle accuse rilanciate vigorosamente in passato, la notizia che questi fatti non costituiscano alcun reato non ha ottenuto la stessa visibilità: nel giorno successivo all’udienza, solamente giornali come il Manifesto, La Stampa e Il Fatto Quotidiano hanno dedicato uno spazio in prima pagina alle parole pronunciate nell’udienza preliminare di questo processo. Anche parte del sistema mediatico italiano ha responsabilità nella diffusione di una logica emergenziale del fenomeno delle migrazioni che porta a una sovraestimazione dell’impatto che effettivamente hanno, costruendo un senso di insicurezza nella popolazione e una cultura del sospetto – per non parlare di una vera e propria criminalizzazione –delle Ong e del loro lavoro dedito al salvataggio di vite in mare, come da obbligo secondo il diritto internazionale. Dopo 7 anni, non sono arrivate scuse dal Governo che si era costituito parte civile, dai partiti che accusarono le ong di essere “taxi del mare” e di essere un “pull factor” per la partenza dei migranti, nonostante l’evidenza dei fatti mostrasse che queste accuse fossero infondate. Quante vittime in più hanno provocato questi tentativi ripetuti di criminalizzare il lavoro delle Ong, anche attraverso l’intercettazione illegale di giornalisti non indagati come Nancy Porsia e Nello Scavo?

Il caso Iuventa ha avuto origine nel periodo in cui Marco Minniti, l’allora Ministro dell’Interno, aveva varato il cosiddetto “codice di condotta” per le Ong impegnate nei soccorsi nel Mar Mediterraneo, ma che insieme ad altre organizzazioni, l’Ong tedesca non firmò e il successivo 2 agosto venne sottoposta a sequestro per «assistenza alla migrazione illegale» e collusione con i trafficanti, durante “tre diverse operazioni di salvataggio avvenute durante il 2016 e il 2017”, come ricordato da Avvenire.

Salvare vite è un dovere, il diritto al viaggio delle persone deve essere difeso e sostenuto, ma l’attuale Governo sta operando in direzione contraria, con fermi amministrativi verso navi civili che spesso si vedono assegnate porti di sbarco molto più lontani del dovuto in base alle direttive del Decreto Piantedosi. Tuttavia, in barba al diritto e alle sentenze dei tribunali italiani ed europei, il trend è chiaro: continuare a “punire” con ogni mezzo disponibile le Ong, impedendo loro di svolgere la propria missione, persistere nel finanziamento della “Guardia Costiera” libica, nonostante le accuse di violenze perpetrate contro migranti e contro altre navi che si trovano nella zona delle operazioni, e nonostante la Libia non sia considerabile un Paese sicuro per le persone migranti, torturate e schiavizzate nei centri di detenzione libici.

Solo nel 2023 sono almeno 8.565 le persone morte lungo le rotte migratorie in tutto il mondo, stabilendo un triste record come l’anno con il maggior numero di morti mai registrato dal progetto Missing Migrants dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). La rotta più letale al mondo è proprio quella del Mediterraneo, dove si sono registrati almeno 3.129 morti e dispersi. Nel frattempo, in Italia, così come in Europa e nel mondo, non è stato fatto alcun passo in avanti per garantire rotte di migrazione più sicure, per migliorare le operazioni di soccorso e per tutelare i diritti fondamentali di ogni essere umano.