Chiude il Cpr di Torino: la speranza è che non riapra più
di Eleonora Costa
Per la prima volta dalla sua apertura nel maggio del 1999, il CPR di Torino è stato chiuso dopo che una serie di rivolte all’interno della struttura ne hanno progressivamente reso inagibili gli spazi, costringendo in definitiva al trasferimento di tutte le persone trattenute.
La protesta è esplosa nella notte tra il 4 e il 5 febbraio, quando alcuni detenuti hanno appiccato incendi in diverse aree della struttura, riducendone inizialmente la capacità di due terzi.
Secondo quanto riportato dalle fonti giornalistiche, la protesta sarebbe esplosa dopo la visione di un servizio shock sul CPR di Potenza e, più in generale, per via delle inumane condizioni di detenzione – più volte denunciate da attivisti e garanti – in cui gli stranieri sono costretti a vivere.
A fronte di tali danneggiamenti, in ogni caso, non è stato possibile attuare uno sfollamento immediato in quanto l’ente gestore del Centro, ORS Italia S.r.l., non disponeva di alcun piano di evacuazione.
Di conseguenza, gli stranieri trattenuti nel centro – il cui numero totale ammontava, allora, a 121 – sono stati costretti a dormire accampati nelle poche aree scampate alle fiamme “in una situazione più drammatica e inumana del solito, difficile da sostenere anche per chi ci lavora”, come testimoniato dal deputato di Alleanza Verdi Sinistra, Marco Grimaldi, dopo aver fatto un sopralluogo nel centro insieme alla consigliera comunale di Sinistra Ecologista, Sara Diena, nonché al consigliere della Circoscrizione 3 e co-portavoce di Sinistra Ecologista, Emanuele Busconi.
Solo in seguito, alcuni detenuti (per l’esattezza, 79) sono stati sistemati in luoghi di fortuna per le successive 48 ore e poi, senza alcuna previa comunicazione, caricati su dei pullman destinati verso il Sud Italia, per essere smistati nei CPR di Trapani, Potenza e Macomer.
Da ultimo, tra fine febbraio e inizio marzo, le poche decine di detenuti rimasti nel CPR hanno iniziato uno sciopero della fame e dato alle fiamme la parte ancora agibile dell’edificio, imponendo la chiusura – almeno temporanea – del Centro per lavori di ristrutturazione, nonché la sospensione del contratto di gestione con la società ORS.
In tale contesto, la garante della Città di Torino per le persone private della libertà, Monica Gallo, ha definito la struttura “inadeguata” secondo molti aspetti e chiesto un completo ripensamento dei CPR.
In parallelo, il Consiglio comunale di Torino, riunitosi lo scorso 13 marzo, ha approvato con 24 voti a favore e 8 contrari (a favore: PD, Moderati, Sinistra Ecologista, Lista civica, Gruppo misto maggioranza, Torino Domani, Movimento 5 Stelle; contro: Lega, FDI, Forza Italia) un ordine del giorno proposto dal consigliere Luca Pidello (Pd) che – auspicando la chiusura definitiva della struttura – impegna Sindaco e Giunta a chiedere al Governo che “le risorse liberate da questa scelta siano impiegate a tutela della popolazione cittadina e a favore di una gestione delle politiche migratorie attenta ai diritti delle persone e volta a una piena integrazione“. Ciò anche in ragione delle “basse percentuali di rimpatrio delle persone recluse nel Cpr – con percentuali prossime al 25% – (…) a fronte di costi complessivi superiori ai 10 milioni di euro all’anno ai quali si aggiungerebbero i costi di ristrutturazione superiori a un milione di euro”.
In via generale, l’assemblea cittadina ha altresì sollecitato una revisione delle politiche di gestione della migrazione in forte discontinuità rispetto all’impianto previsto dalle leggi Bossi-Fini e Turco-Napolitano, nonché degli accordi di Dublino.
Ciononostante, da parte del ministero dell’Interno sembrerebbe esserci la volontà di riattivare il prima possibile il CPR di Torino, da anni oggetto di inchieste giornalistiche e denunce da parte di varie organizzazioni della società civile.
Le criticità registrate nel CPR di Torino non sono di certo una novità nel panorama della detenzione amministrativa degli stranieri.
I centri, senza eccezioni, rappresentano un buco nero che ingoia vite umane.
Pertanto, l’auspicio è che si superi tale sistema di “gestione” delle migrazioni e si inizino a percorrere alternative non coercitive (peraltro più economiche) che, accompagnando le persone in un percorso condiviso, possano portare a soluzioni individuali dei casi, nel rispetto dei diritti e della dignità dei migranti.
In copertina: l’allora CPTA di Torino nel 2006. Foto via MEDU