L’importanza delle storie personali nella comunicazione
Autore: Andrea Oleandri
Le storie accompagnano l’uomo fin dalla notte dei tempi, rendono semplici i concetti complessi, veicolano informazioni, emozioni e valori. Le storie toccano il cuore di chi le ascolta, riescono a creare un ponte, a far sentire due persone, lontane e distanti, vicine.
Quando pensiamo all’organizzazione di una campagna o al lancio di un progetto dobbiamo avere sempre a mente questo: la storia di una persona, lo storytelling, in molti casi e per alcuni obiettivi che ci poniamo è più importante del linguaggio obiettivo e “tecnico”.
Per tanti anni – e ancora oggi avviene – si è ricorso al fact-checking come strumento di comunicazione e advocacy. Cioè affidarsi a dati e statistiche ufficiali per rispondere a narrazioni “tossiche”. Tuttavia questo lavoro, pur offrendo un importante contributo, da solo non può bastare.
Estremizzando il concetto possiamo pensare a dei casi di cronaca. Spesso capita di sentire un trasporto e un cordoglio molto più forte quando un telegiornale ci parla di una persona deceduta per un incidente, piuttosto a quanto non accada davanti alla notizia di decine di persone morte, magari a causa di un disastro naturale. Perché? Una spiegazione possiamo trovarla nel fatto che quando il caso riguardi una o poche persone, i media saranno in grado di ricostruire tanti particolari della sua o loro vita: la famiglia, le passioni, i sogni, il lavoro, le difficoltà, quelle che aveva superato e quelle che aveva davanti. In questo racconto è facile che emergano valori o aspetti della vita della vittima che sentiamo di condividere o in cui ci riconosciamo. È facile, quindi, che proprio questo racconto arrivi a toccare la nostra emotività, generando un sentimento di immedesimazione. È difficile che lo stesso avvenga in caso i morti siano molti e le singole storie, le singole vite, si perdano nel numero.
Questo avviene anche quando parliamo, ad esempio, di fenomeni complessi come l’immigrazione. In quei numeri che il nostro fact-checking garantisce, in quello delle persone che arrivano in Europa o delle persone torturate nei campi libici, si perde la dimensione individuale e personale. Non c’è nulla che mi faccia immedesimare in quelle storie, perché non ci sono storie. E allora finisce che ci si possa immedesimare più in chi, ogni giorno, costruisce una narrazione fatta di paura e preoccupazione per “l’invasione” toccando valori condivisi: quello della sicurezza (per esempio) o della libertà (che potrebbe essere messa a rischio).
C’è poi un altro elemento di cui dobbiamo tenere conto se ci affidiamo al fact-checking. I numeri ognuno può interpretarli in base alla percezione che già ha di un fenomeno. Rimanendo sul terreno dell’immigrazione, se parliamo di 300 persone arrivate a Lampedusa, questo numero può sembrare tanto o poco a seconda della nostra predisposizione verso il tema delle migrazioni.
300 persone sono poche se rapportate ai 60 milioni di residenti in Italia e ai 600 milioni di residenti in Europa. Ma se penso che già siano troppi quelli arrivati, o penso che 300 sono sei volte le persone che abitano nel mio condominio – e la fatica che faccio a sopportare alcuni dei miei vicini – forse sono troppi.
Per questo dobbiamo guardare oltre il fact-checking.
Come ricorda Doriano Marangon in “La comunicazione emozionale”, fin dai tempi dell’antica Grecia si possono rintracciare due tipi di discorsi: quelli legati al mythos e quelli legati al logos. Il primo ha a che fare con la dimensione emotiva, quella delle favole, o del mito, appunto; il secondo, invece, riguarda la dimensione razionale, il pensiero, la ragione. Il mythos ha a che vedere con la possibilità di commuovere, il logos con quella di convincere. Ma ci sono molti casi in cui, come abbiamo visto, senza creare emozioni è difficile convincere.
Il mythos è il moderno storytelling
Per questo è necessario affidarsi alle storie per avere un’influenza maggiore: le storie orientano, generano senso e, in questo modo, portando al consenso. “Alle persone – scrive Fulvio Julita – piace leggere di altre persone. Tutti ne siamo attratti perché nella vita degli altri ci identifichiamo, con gli altri ci misuriamo”.
Il primo assunto da cui partire è che tutti noi abbiamo tante storie da raccontare, perché tutti noi abbiamo banalmente una storia. Fatta di esperienze, positivi o negative, di emozioni, di rapporti. La nostra storia è unica, particolare, contiene degli esempi e anche delle massime: qualcosa che abbiamo capito, un risultato che abbiamo raggiunto, una crescita che ha portato nel nostro percorso di vita.
La nostra storia, anche se sempre quella, però non sempre ha lo stesso valore. Molto dipende dal dibattito in corso, dalla capacità di stare sull’attualità, dalla cornice (il frame) all’interno del quale si va ad inserire. In alcuni casi la nostra storia può fare la differenza. Può essere interessante per tanti e può offrire un grande valore aggiunto. Può portare a dei cambiamenti in chi la ascolta.
Il secondo elemento è che, nel raccontare una storia, la comunicazione orale prevale su quella scritta. Per questo è fondamentale il public speaking e la comunicazione diretta. Un testo scritto da voi, con la vostra storia, non avrà mai la stessa capacità di emozionare di voi stessi che, in piedi, davanti ad un pubblico, la raccontate. Con la vostra voce, le vostre pause, il vostro tono che cambia e che sottolinea alcuni passaggi, glissa su altri, creando il giusto coinvolgimento. Sia ben chiaro, questo non significa che bisogna rinunciare ai testi scritti, ma semplicemente che se si ha la possibilità è preferibile una forma orale di racconto.
Quando una storia è raccontata bene l’ascoltatore si abbandona all’ascolto, si immedesima nel personaggio e nel racconto ed è lì che cambiano le percezioni dei fenomeni. A patto che questa storia sia autentica, cioè fin dall’inizio contenga degli elementi che lascino capire al pubblico che davvero deriva da un’esperienza che abbiamo vissuto (o comunque reale). Ma se ci si abbandona all’ascolto è anche per una ragione scientifica. Ci sono alcune prove nelle neuroscienze che suggeriscono che quando si racconta una storia e un altro la ascolta,alcuni meccanismi neuronali si innestano. Aumentano i nostri livelli di ossitocina, un ormone del benessere. C’è dunque una spiegazione anche scientifica per il nostro amore verso le storie e su come l’empatia nasca a livello non solo emotivo ma anche fisico.
Ma come si costruisce una storia?
Innanzitutto è fondamentale partire dall’inizio, ovvero a “chi” parlare. Per questo è fondamentale capire anche di “cosa” si vuole parlare e “quali” azioni, ambienti, personaggi, tempi, eventi, prendere in considerazione. Importante è anche capire il “perché” di un racconto: a cosa servirà, qual è l’obiettivo che pensiamo di raggiungere?
Una volta risposto a queste domande la seconda fase è poi quella di considerare la storia nei termini di un discorso. Quindi quali strutture narrative usare e quali media specifici scegliere.
Come ricorda Andrea Fontana nel suo “Story-selling”, una buona storia ha temi chiari e definiti, possiede una trama, ha uno stile vivido e caratterizzante, ha una tensione emotiva, si rivolge ad un pubblico specifico e lo fa con mezzi di comunicazione ben calibrati.
Quello del pubblico specifico è un elemento importante di quando si racconta una storia. Come dicevamo poco più sù una storia, benché sempre quella, non in tutti casi riesce ad avere lo stesso impatto e lo stesso valore nel produrre un cambiamento. Il pubblico tende infatti più facilmente ad essere coinvolto in storie che hanno qualche elemento biografico in comune con chi la sta ascoltando. Per questo bisogna conoscere i valori di base delle persone a cui vogliamo parlare. Solo facendo leva su questi e includendoli in una costruzione narrativa e retorica saremo in grado di fissare il nostro racconto nella memoria delle persone. Ci sono molti modi diversi per raccontare la stessa storia, come farlo lo sceglieremo, dunque, anche in base al pubblico a cui parleremo o vorremmo parlare.
Torniamo però alla costruzione della storia. Se vi fermate a pensare ora a qualcuna di quelle che avete immagazzinato nella vostra mente (e nel vostro cuore), probabilmente vi renderete conto che avranno alcuni elementi caratteristici comuni. Dalle fiabe che ci raccontavano da bambini, fino ai film che vediamo da adulti, infatti ci sono elementi fondamentali per la costruzione di una storia che si rispetti – e per questo colpisca. Elementi che non possono mancare. Innanzitutto un protagonista. Che ha un’impresa da compiere e che per compierla deve affrontare una o più sfide; c’è un avversario, che può essere una persona o una avversità da superare; in molti casi ci sono altri personaggi che aiutano il protagonista; poi c’è una fine, spesso lieta, con una morale che l’esperienza ci offre (e che noi offriamo a chi ci ascolta).
Ora fermatevi un altro momento a pensare. Stavolta a una storia che ha visto voi come protagonisti. Una storia che raccontate magari ai vostri amici, ai vostri figli o nipoti. Immagino che abbia queste caratteristiche. Ed è per queste che sa emozionare. Per questo resta impressa. Per questo ci fa venire voglia di ascoltarla. Le emozioni sono alla base della narrazione che, ed è bene tenerlo sempre a mente, non ha potere senza queste. Che sia paura, rabbia, gioia, gelosia, invidia, ira. Una storia deve averle e deve suscitarle.
Prima di chiudere è utile richiamare un esempio che possa aiutarci a chiarire alcuni dei concetti riportati. Utilizziamo la storia raccontata da Mark Bezos (sì, se ve lo state chiedendo è il fratello di Jeff, il fondatore di Amazon) durante un Ted.
Spero vi sia piaciuto. Prima di leggere quelle che sono le mie considerazioni sul video vi invito a buttare giù, brevemente, quelle che sono le vostre e vedere se le nostre impressioni e pareri coincidono o in cosa si allontanano. Se abbiamo riscontrato gli stessi punti di interesse.
Se lo avete fatto, ecco qui gli elementi che per me sono importanti
Innanzitutto il fatto che il narratore riesca a tenere insieme due elementi portanti di qualsiasi discorso: l’Ethos e il Pathos. Da una parte ci offre alcuni elementi di cui, chi non è un pompiere volontario (e nemmeno un pompiere di lavoro) non avrà alcuna conoscenza. Pochi secondi che però ci fanno capire che ha competenza sul tema e quindi che ci possiamo fidare del suo racconto. Poi però tutto il resto del discorso lascia spazio al pathos, alla parte più emotiva. Parla al cuore delle persone. E lo fa utilizzando dei valori comuni. Non molti avranno provato cosa significa perdere la propria casa per un incendio, ma tutti possono mettersi nei panni di chi sta subendo questa perdita. Casa è il luogo dove si svolge la nostra vita, dove abbiamo i nostri beni, i nostri ricordi delle giornate trascorse con i famigliari, gli amici.
Prima facevamo riferimento all’autenticità di una storia. Un elemento che la caratterizza è un’emozione, che potremmo giudicare “negativa”, che il protagonista vive: l’invidia. È invidioso del volontario che, davanti a lui, avrebbe avuto un ruolo a suo parere più importante: “salvare la vita ad un essere vivente (il cane)”. E lo avrebbe raccontato e se ne sarebbe vantato.
Se Mark Bezos è il protagonista della storia, l’altro volontario, che lui chiama Lex Luthor (il cattivo di Superman, ndr), è l’avversario. Che avrà la sfida più importante, salvare il cane, mentre al narratore resta quella secondaria di recuperare “solo” un paio di scarpe. Ma anche qui, come in tutte le storie che si rispettino, c’è una fine, con la sua morale. Che riscatta il protagonista stesso dall’emozione negativa. La fine – il lieto fine – è la lettera della donna che offre un insegnamento e provoca un cambiamento in chi racconta. Insegnamento e cambiamento che attraverso la storia vengono offerti anche agli altri e che passa attraverso uno dei valori più importanti: la solidarietà. Valore alla base delle nostre società, che ognuno di noi può interpretare in modi e intensità differenti, ma che difficilmente manca.
Sono piuttosto certo che questa storia ve la ricorderete per molto tempo ancora e vi tornerà in mente tante altre volte nella vostra vita.
Bibliografia:
- Andrea Fontana, Story-selling. Strategie del racconto per vendere se stessi, i propri prodotti, la propria azienda – Rizzoli Etas, 2010
- Doriano Marangon, La comunicazione emozionale – Carocci editore, 2018
- Fulvio Julita, Raccontarsi online. Dal freelance alle piccole e medie imprese: storytelling per il marketing digitale – Hoepli, 2021