«Eutanasia, sono prete e dico sì»
Ripubblichiamo l’intervista di Patrizio Gonnella a Don Ettore Cannavera, che nel 2016 aveva ricevuto il Premio CILD alla Carriera. L’intervista è stata pubblicata su il manifesto dell’8 settembre 2021
Serdiana è un piccolo paese dell’entroterra cagliaritano, immerso tra i campi e le vigne. Più o meno a metà strada tra la spiaggia del Poetto e il villaggio nuragico di Barumini c’è la Collina di don Ettore Cannavera. Da decenni la sua comunità ospita ragazzi, che poi diventano adulti, sottratti al carcere. Al momento del nostro incontro ce n’erano cinque, ma ne sarebbero arrivati altri sette a breve. Si tratta principalmente di persone che hanno commesso reati – anche gravi – da minorenni, alle quali viene data la possibilità di vivere del proprio lavoro. Sì, perché questi ragazzi sono retribuiti per il lavoro agricolo di cura delle vigne, degli uliveti, dell’orto. Non è così, spesso, in altre comunità. Don Ettore rivendica il valore emancipatorio del salario, fonte di dignità. Rivendica inoltre il basso indice di recidiva tra chi è passato dalla sua comunità aperta (qui i cancelli non vengono mai chiusi) rispetto a quello delle prigioni.
Nelle colline della Comunità, si può avere la fortuna di trovarsi la notte sotto un cielo meravigliosamente stellato, mentre di giorno, chiacchierando con Ettore, si respira un’atmosfera che ci riporta alla pedagogia degli oppressi di Paulo Freire. La sua Chiesa è quella tesa a occuparsi di poveri, malati, rifugiati e carcerati. È questo per lui il contenuto rivoluzionario del Vangelo. Non ha paura a raccontare di se stesso che, uomo di Chiesa, non ha mai vissuto con i soldi della Chiesa. E non ha accettato quelli dello Stato che lo avrebbe voluto pagare per fare il cappellano in carcere. Lo ha fatto gratis, per oltre vent’anni, al carcere minorile di Cagliari. «La religione è affare per cui non ci si può far pagare», afferma. I preti non devono vivere di messe, funerali e matrimoni. I preti devono vivere di altro. Lui insegnava storia e filosofia nella scuola pubblica. E ricorda i preti operai difesi dall’allora vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi.
Così come ricorda i tempi in cui fu sospeso per qualche tempo perché manifestò il suo disaccordo rispetto alla politica sulla sessualità della Chiesa, che era contraria ai preservativi. In Comunità c’è una biblioteca ricca e ben organizzata. I libri sono strumento di libertà, dice Don Ettore. E vi sono anche i quotidiani. Ben in evidenza, il nostro manifesto. E al manifesto Ettore decide di raccontare perché ha sottoscritto il referendum sul fine vita.
Come puoi conciliare il tuo essere sacerdote con una firma così pesante?
«È un argomento che pone un interrogativo fondamentale sul senso della vita. La vita che c’è stata donata dai nostri genitori. Noi siamo lo strumento per la vita. Ho appreso da prete che ogni nuova vita è un dono di Dio. Si dice che essendo la vita un dono di Dio non può essere rifiutata. Io penso che la vita sia qualcosa di più articolato. Dio ha dato la possibilità di creare una nuova esistenza, ma ne diventa totalmente proprietario, responsabile, il titolare di questa nuova esistenza. L’esistenza non è riassumibile in essenza biologica. Non si esaurisce nel funzionamento del corpo. L’esistenza ha una sua essenza relazionale. Questo lo sostengo alla luce della mia visione biblica. Dio è un essere relazionale che noi definiamo amore. Dio è dunque amore. Se l’essere umano nella sua esperienza terrena non riesce più a sperimentare qualunque relazione, ossia l’amore, e chiede lui di poter porre fine all’esistenza, e la scienza conferma che la sua morte relazionale è irreversibile, allora perché non aiutarlo?».
Dunque non si va all’inferno se si interrompe la propria vita in condizioni estreme?
«Non esiste l’inferno. Lo diceva già negli anni Cinquanta Giovanni Papini. Non credo nell’inferno. Se diciamo che Dio è amore, come può esserci l’inferno. Un padre, Dio, che ama un figlio, come può mandarlo a soffrire all’inferno? Che amore sarebbe mai questo? Inoltre si pensi alle ingenti spese sostenute per mantenere in vita persone che non possono più esprimere relazioni e amore. Le nostre città sono piene di poveri. La scienza può allungare l’esistenza biologica dell’essere umano, non quella relazionale. E lo fa con grandi spese. Abbiamo bisogno di risorse economiche per aiutare le persone a vivere bene e non per impedire loro di morire quando la vita di relazione è oramai, anche scientificamente, conclusa».
A volte si percepisce nei luoghi della Chiesa una sorta di elogio della sofferenza, come se il bello venisse solo dopo.
«Cristo l’hanno messo in croce. E quando l’hanno crocifisso ha detto: “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”. Non è vero che la religione cristiana vuole la sofferenza. È una deformazione interpretativa. Dio ci ha creato per l’amore, per la gioia, per la felicità. Dio ci ha creato per godere la vita, non per soffrire. Se con il trapasso si dice che la vita è trasformata in qualcos’altro di meglio, perché allora non consentire di godersi questo passaggio?».
Un buon cristiano si occupa di ammalati, rifugiati, detenuti, poveri. Cosa fa la Chiesa per i poveri?
«La Chiesa deve farsi povera. Deve condividere la vita dei poveri. Io faccio la stessa vita dei miei ragazzi. Dormo e mangio con loro. Papa Francesco ha iniziato a farlo. Più di questo non può fare. Essere religiosi – di qualsiasi religione – vuol dire questo: occuparsi dei poveri e degli ultimi. Non serve altrimenti andare in chiesa. La messa è un mezzo, non un fine. Serve per ricaricare le pile e poi occuparsi dei poveri. Non può essere fine a se stessa».
Sei diventato prete nel 1968. Un anno particolare…
«Sono uscito dal seminario che avevo 23 anni e mezzo. Ero inserito nella struttura della Chiesa e avevo possibilità di carriera. Fui mandato a Roma, ero un privilegiato del Vaticano. Poi ci fu, nel 1974, la legge sul divorzio. Parlai a favore del divorzio. Così si interruppe la mia strada per Roma. Poi ho capito che è stata una fortuna. Da allora ho iniziato la mia vita normale. Ho trascorso un anno sabbatico nel deserto e a seguire ho deciso di fare il prete. Da uomo libero. E così ho iniziato ad occuparmi dei detenuti. Ecco che nasce la Comunità “la Collina”, su un terreno di famiglia».
LA CHIACCHIERATA TERMINA con un bicchiere di rosso prodotto dai ragazzi e con l’appuntamento per la vendemmia del giorno dopo. Quest’anno l’uva è già matura a fine agosto.