Strage del 3 ottobre: ricordare per cambiare le politiche nel Mediterraneo

Strage del 3 ottobre
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C’è una data simbolo delle tragedie nel Mediterraneo, è il 3 ottobre 2013. Quella mattina un peschereccio salpato dalla Libia e carico all’inverosimile di migranti si rovescia dopo aver preso fuoco a pochi chilometri da Lampedusa, moriranno 368 persone.

A seguito della tragedia e dei probabili ritardi nei soccorsi, prenderà via l’operazione Mare Nostrum, ma inizieranno anche le prime polemiche verso i soccorritori, accusati di fare da pull factor e di attrarre i migranti, primi presagi di quelle che saranno le accuse di collusione coi trafficanti mosse alle ONG.

Nel ricordo doveroso delle vittime, ecco la ricostruzione di 5 anni che hanno visto le politiche di soccorso nel Mediterraneo cambiare radicalmente.

In fuga dal regime eritreo

5 ottobre 2013, siamo davanti l’Isola dei Conigli. Sul peschereccio lungo appena 20 metri e partito poche ore prima dal porto di Misurata sono stipati in 500, molti occupano il ponte, altri ancora sono ammassati nella stiva. È lì che li troveranno i soccorritori il 9 ottobre, quando riusciranno finalmente ad entrare nell’imbarcazione ormai adagiata sul fondale.

Ci vorrà più di una settimana prima che le ricerche si concludano e vengano recuperati tutti i cadaveri. Tra loro c’è anche una ragazza di 22 anni Hagerawit Shishay. È eritra come la maggior parte delle vittime del naufragio. Come tanti suoi compatrioti fugge dal regime di Afewerki – in Eritrea era stata arrestata perché sospettata di voler abbandonare il paese – a casa ha lasciato un figlio di 3 anni.

“È la numero 72” racconta il fratello, il padre coopto Musie Shishay “è con quel numero che si identifica la sua bara”, in molti altri casi il riconoscimento delle salme non si concluderà mai.

Le reazioni alla strage furono immediate. Papa Francesco la definì una “Vergogna”, l’allora premier Letta una tragedia immensa. Il governo istituì una giornata di lutto nazionale in occasione dei funerali delle vittime e a seguito della notizia dell’iscrizione dei 155 superstiti del naufragio nel registro degli indagati per immigrazione clandestina, si arrivò a discutere in parlamento dell’eliminazione del reato.

Il fallimento dei soccorsi in Mare e la criminalizzazione della solidarietà

Ma fu un’altra la risposta più tangibile della politica alla strage: l’operazione Mare Nostrum.

All’indomani del naufragio, infatti, furono mosse accuse nei confronti di un peschereccio che pur trovandosi nei pressi dell’imbarcazione, non avrebbe prestato soccorso – a tal proposito, il prossimo 23 ottobre, seguito dagli avvocati di Progetto Diritti, si svolgerà ad Agrigento l’udienza preliminare del processo – ma anche nei confronti di due navi della Guardia costiera e della Guardia di finanza che sarebbero intervenute con notevole ritardo.

Il 18 ottobre 2013, l’allora premier Letta decise di rafforzare il pattugliamento del Canale di Sicilia. Nell’operazione vennero impegnati i mezzi della Marina militare, della Guardia costiera, dell’Aeronautica e della Guardia di finanza.
La Marina in particolare dedicava alla missione due corvette, due pattugliatori, due elicotteri e tre aerei e una nave anfibia in grado di accogliere i naufraghi e di soccorrerli.
Ma gli alti costi dall’operazione – 9 milioni di euro a gravare sulle casse della sola Italia – unite ai primi risentimenti verso una politica di soccorso attiva, fecero sì che Mare Nostrum non fosse rinnovata.

Si passò quindi a Triton, il primo novembre 2014.

L’operazione non fu più solo a guida italiana ma affidata a Frontex, e soprattutto l’area di pattugliamento si assottigliò passando dalle 172 miglia di Mare Nostrum alle 30 miglia di Triton, fino ad arrivare alle attuali 24 miglia dell’operazione Themis – iniziata il primo febbraio 2018.

Obiettivo dichiarato di Mare Nostrum era quello di salvare vite in mare, quello di Frontex e Themis invece riguarda in prima istanza il controllo delle frontiere. In cinque anni abbiamo assistito al progressivo disimpegno degli Stati, e come da contraltare, ad uno sforzo maggiore della società civile. Alcune Organizzazioni Non Governative hanno tentato di sopperire all’assenza degli Stati e hanno iniziato a battere con loro navi le rotte dei migranti per salvare le loro vite. Un comportamento che ha provocato accuse pesanti per una loro collusione con i trafficanti. Qualcuno le ha definite “taxi del mare”. Inchieste giudiziarie sono state aperte e tutte, finora, si sono concluse con archiviazioni. Non c’è nessun fine economico a guidare l’attività di queste ONG, ma solo quello umanitario. Tuttavia, sul versante politico si è cercato in tutti i modi di ostacolare il lavoro di queste organizzazioni che, in alcuni casi, hanno lasciato (o hanno dovuto sospendere) la perlustrazione del Mediterraneo, con un aumento esponenziale dei morti in mare.

5 anni dopo è record di morti in mare

Dal 2015, il 3 ottobre è anche la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”, con l’obiettivo di ricordare chi “ha perso la vita nel tentativo di emigrare verso il nostro Paese per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni e alla miseria”.

Significativo allora un dato rilasciato proprio in questi giorni dalla fondazione Ismu: da gennaio 2014 al 20 settembre scorso sono stati oltre 17mila i migranti che hanno perso la vita o che risultano dispersi nelle acque del Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa.

A settembre sono morti mediamente 8 migranti ogni giorno e questo a fronte di un numero di partenze molto inferiore rispetto a quanto avveniva in passato.
La Giornata della Memoria e dell’Accoglienza sia l’occasione affinché il ricordo di quella strage possa portare a politiche sull’immigrazione votate al salvare vite umane e ad accogliere chi è in fuga da guerre, dittature, miseria, calamità naturali.