Pena di morte. Un effetto diretto della war on drugs

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Sono ancora centinaia le persone che ogni anno vengono messe a morte. Amnesty International nel 2016 ne ha contate 1.032 in 23 paesi. Un dato che, di fatto, non conta le esecuzioni avvenute in Cina, paese che secreta il numero di persone per le quali applica la condanna capitale. Escludendo proprio il paese asiatico, l’87% di tutte le esecuzioni avvengono in 4 paesi: Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan.
Sempre Amnesty International spiega come nel 2016 siano state emesse condanne che prevedono la pena di morte in 55 paesi per un totale di 3.117 persone poste in attesa dell’esecuzione, con un aumento importante rispetto al 2015 quando erano 1.998 in 61 paesi.

Credit: Amnesty International
Credit: Amnesty International

Molte di queste condanne ed esecuzioni sono legate alle politiche sulla droga dei governi. Oltre trenta paesi prevedono infatti la pena capitale anche per reati non violenti come sono molti di quelli connessi alla droga. Fatti che non raggiungono la soglia dei “reati più gravi” secondo il diritto internazionale.

Tra i paesi che guidano questa negativa classifica ce ne sono molti che appartengono all’area del sud-est asiatico. Se guardiamo all’anno appena trascorso in Indonesia quattro uomini (tre di nazionalità nigeriana) sono stati giustiziati. Per due di loro l’esecuzione è avvenuta prima che la richiesta di grazia potesse essere esaminata. Nel corso del 2016 i tribunali del paese hanno emesso altre 46 condanne a morte per reati connessi alla droga. Va peggio in Malesia dove le sentenze emesse con pena capitale sono state 17. Sette sono invece quelle emesse a Singapore dove due condanne a morte sono state eseguite nel 2016.
In Thailandia le cose vanno ancora peggio. Dai dati resi disponibili dal ministero della Giustizia, si scopre che sono oltre duecento le persone in attesa dell’esecuzione per reati di droga. Anche il Vietnam rientra tra i paesi a fare ampio uso della pena capitale per questi reati e almeno 54 sentenze sono state comminate nel 2016 per questa ragione.

Tuttavia non è solo il sud-est asiatico a condurre politiche di questo tipo. Le cose non vanno meglio tra medio-oriente e penisola arabica. L’Arabia Saudita ha messo infatti a morte almeno 154 persone nel 2016, 24 per reati di droga.

Una lunga lista dell’orrore nella quale abbiamo tralasciato Iran e Filippine che meritano un capitolo a parte.

L’Iran (ne abbiamo parlato anche in un approfondimento della campagna Non me la spacci giusta), come dicevamo all’inizio, è uno dei paesi (Cina esclusa) a fare maggiore uso della pena di morte, in particolare per reati di droga. Nei primi sette mesi del 2017 queste sono state ben 183, su un totale di 319 esecuzioni.
Dal 1988, secondo fonti giudiziarie iraniane, le condanne a morte eseguite per reati di droga sono state circa 10.000.

Tuttavia il paese sta discutendo una riforma sul tema. Prima dell’estate il Parlamento ha approvato un testo di legge che potrebbe ridurre sensibilmente il ricorso al boia e che riguarderebbe anche i prigionieri in attesa di esecuzione, circa 5.300. La pena di morte resta in vigore per spaccio di oltre due chili di eroina, morfina, cocaina e loro derivati (prima ne bastavano 30 grammi) e più di 50 chili di bhang (una bevanda a base di cannabis), oppio e cannabis (10 volte di più rispetto a prima).
Resta tutto inalterato invece per i capi delle bande criminali del narcotraffico, per coloro che sfruttano i minorenni nello spaccio, per chi possiede o usa armi da fuoco durante la commissione di reati di droga e per i recidivi con precedenti condanne superiori a 15 anni.
Per chi è in carcere in attesa dell’esecuzione – e secondo le nuove norme non avrebbe dovuto ricevere una condanna di questo tipo – ci sarà poi una commutazione della pena a 30 anni di carcere e a una multa.

Un cammino opposto stanno facendo le Filippine. Nel marzo scorso, infatti, il parlamento ha approvato con una netta maggioranza il ripristino della pena capitale – abolita nel 2006 – per diversi reati come lo stupro, l’omicidio e crimini legati a importazione, vendita, fabbricazione, consegna e distribuzione di sostanze stupefacenti.
La proposta di legge, che deve ora essere approvata dal Senato e poi firmata dal presidente Rodrigo Duterte, fa parte della guerra alla droga che quest’ultimo ha lanciato nel paese all’indomani della sua elezione e che finora ha portato all’uccisione di oltre 10.000 persone, vittime di esecuzione extragiudiziali. Tra loro si contano decine di ragazzi giovanissimi.

La pena di morte per reati di droga tuttavia non è una questione che riguarda solo gli stati che la applicano, ma interroga direttamente la Comunità Internazionale. Infatti non è sbagliato dire che questa politica sia giustificata dalle stesse Convenzioni internazionali. In particolare, durante la stesura della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961  –  più volte descritta come il fondamento del regime globale di controllo delle droghe  – c’erano solo una manciata di stati ad applicare la pena di morte per reati legati alla droga.
Ma con l’adozione della Convenzione e l’implementazione di questa in leggi, il numero è incrementato. La ragione è semplice. Questa vietava la produzione, la vendita e il consumo di qualsiasi sostanza considerata stupefacente imponendo la criminalizzazione di ogni atto che avesse che fare con queste sostanze. Per alcuni paesi la criminalizzazione è consistita nella condanna capitale.

In anni recenti le Nazioni Unite stesse  –  e le agenzie che si occupano direttamente di droghe  –  si sono più volte pronunciate (anche se a volte molto timidamente, come accaduto nell’ultima Sessione Straordinaria dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dell’aprile 2016) sostenendo l’abolizione della pena di morte per reati droga correlati, invitando gli stati membri a seguire gli standard internazionali in materia.
Tuttavia i governi che ancora prevedono la pena capitale per questo genere di violazioni si fanno scudo dinanzi a queste richieste, impugnano gli stessi trattati sul controllo delle droghe. Per esempio la Corte Costituzionale indonesiana, in un importante caso presentatogli sulla pena capitale, ha sostenuto che i trattati internazionali sul controllo della droga autorizzano lo stato a mettere a morte persone per questi reati, nonostante gli standard internazionali dicano altro.

Per questo bisognerebbe partire dalla riscrittura delle Convenzioni Internazionali per porre fine al terribile ricorso alla pena capitale. Un tema che va ripreso a partire da oggi, in occasione della Giornata Mondiale contro la pena di morte.