Il populismo ai tempi dei social network: quali relazioni?
Che relazione c’è tra populismo e social media?
Si tratta di una domanda su cui oggi si scrivono editoriali, articoli e policy paper, un tema che sta interessando il mondo accademico e non solo. Proprio di questo si è parlato al primo appuntamento di un ciclo di seminari organizzato dal Centre for internet and human rights (CIHR) dell’Università europea della Viadrina e del think tank tedesco Neu Verantwortung, con ospite, Paul-Jasper Dittrich, Researcher Fellow dell’Istituto Jacques Delors di Berlino.
La presentazione della ricerca
In base a quanto emerso dall’indagine realizzata dall’Istituto Delors di Berlino sembra che i populisti, di destra o di sinistra, riescano ad utilizzare i social media in modo molto più efficace degli altri e soprattutto che siano in grado di mobilitare un numero impressionante di persone, dopo averle, in qualche modo, fidelizzate attraverso post, immagini o video pubblicati in occasione di particolari eventi, come gli attacchi terroristici o gli scandali politici.
Il report presentato da Dittrich è uno studio comparativo sulle esperienze di Francia, Germania e Italia. Al netto delle considerazioni su ciascun Paese, e su ciascun movimento o partito citato, sia esso di destra o di sinistra, quello che è emerso è che questi movimenti anti-élite e anti-sistema, che spesso si proclamano “oltre le categorie classiche destra/sinistra”, sono incredibilmente abili nel manipolare le informazioni online, nel rilanciare contenuti, che possono essere anche fake-news o parziali verità e (dis)informazioni, attraverso numerosi canali, da Youtube a Twitter, da Facebook a Instagram.
Un dato interessante è riferito al livello di fiducia che le cittadine e i cittadini di ciascun paese preso in esame hanno nei confronti della stampa e dei mezzi di comunicazione tradizionali . In Germania, dove il movimento populista di destra AfD non sembra sfondare (malgrado il grande successo degli ultimi anni), c’è la più alta percentuale di fiducia nei mezzi di comunicazioni standard – tra il 50 e il 60% – e la più bassa percentuale di chi considera Facebook come “fonte di informazione”. L’opposto accade in Italia e Francia, dove il livello di sfiducia è maggiore, così come la percentuale di coloro che considerano Facebook un canale valido di informazione, con accessi frequenti su base giornaliera.
Il nesso principale quindi sembra essere questo: crescente sfiducia nei mezzi di comunicazione tradizionali e convinzione che si possa accedere, tramite i social networks, da soli, alle notizie “vere”. Non a caso alcuni di questi movimenti populisti creano canali propri di contro-informazione, che hanno in certi casi, come in Italia, un seguito notevole.
Esiste una definizione di populismo?
Il risultato complessivo e più importante del report e della discussione che ne è seguita riguarda la definizione di “populismo” che viene proposta così come l’analisi del loro agire.
I populisti non si limitano a diffondere messaggi brevi, non argomentati, basati spesso su informazioni parziali se non addirittura false, ma producono contenuti nuovi, che diffondono abilmente tramite i social media, in un circolo vizioso in cui, poiché non ci si può fidare dei mezzi di comunicazione tradizionali, assoggettati al potere dominante, occorre che il “popolo” – categoria affascinante, sicuramente antica ma molto fumosa – si mobiliti da sé, sfruttando la libertà che internet consente, per fare contro-informazione. E il tasto “condividi” che spesso accompagna i contenuti online serve a diffondere la vera notizia.
È quasi un atto di ribellione, intrapreso come opposizione all’elite politica ed economica. Per questo il “populismo” è una thin ideology, nell’accezione di Cas Mudde, uno dei massimi esperti sul tema, che vede contrapposto il “popolo” inteso in senso quasi romantico come “buono” ad una “elite” che naturalmente è cattiva.
Il “populismo” può essere di destra o di sinistra, mentre il primo tipo contrappone essenzialmente culture e tradizioni, il secondo contrappone l’1% di ricchi al 99% di poveri. I primi fondano il loro agire politico sulla contrapposizione con il generico “altro”, i secondi sottolineano le ingiustizie estreme della globalizzazione e dell’economia.
Il populismo, infine, può essere considerato una strategia di comunicazione politica. Da qui la domanda forse provocatoria, ma stimolante, che viene posta alla fine del seminario: può esistere o esiste un populismo buono?