Può la tecnologia aiutare davvero i rifugiati?

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Oggi più persone che mai sono costrette a migrare e la crisi globale dei rifugiati rappresenta indiscutibilmente una delle più grandi sfide umanitarie del nostro tempo.

Secondo le stime dell’UNHCR, al mondo ci sono più di 65 milioni di profughi (la cifra include richiedenti asilo e rifugiati ma anche gli sfollati) – il numero più alto che si sia registrato dalla seconda guerra mondiale: in pratica, una persona su 113 è stata costretta ad abbandonare la propria casa, ed ogni minuto se ne aggiungono altre 24. Di queste, più di 21 milioni sono state formalmente riconosciute come rifugiati, e all’interno di questo gruppo la maggior parte delle persone proviene da Somalia, Afghanistan e Siria ed ha meno di 18 anni.
La crisi non riguarda ovviamente solo l’Europa, ma anche l’Africa del Nord e Sub-Sahariana, il Medio Oriente, l’Asia, l’Australia e le Americhe.

I motivi per cui le persone si decidono a migrare sono tanti e disparati, ma i rifugiati sono spesso visti come un blocco unico dai media, i politici e, purtroppo, anche da alcuni membri della comunità tecnologica. In questo senso non si può non evidenziare come le discussioni sull’uso della tecnologia per aiutare i rifugiati tendano a vedere i profughi solo come vittime ed a escluderli dal processo decisionale: si arriva insomma al risultato paradossale per cui le soluzioni sono sviluppate “per i rifugiati” e non “con i rifugiati”.
Questo ha condizionato fortemente la qualità dei risultati a cui si è sinora pervenuti, dato che non è ovviamente possibile trovare soluzioni realmente incisive ed efficaci senza avere tutti i soggetti interessati (rifugiati in primis!) al tavolo. In altre parole: è ora di mettere i profughi al centro del dibattito sugli utilizzi della tecnologia per intervenire sulla crisi.

Il workshop “At the End of Every Data Point is a Human Being: The If and When of Technology for the Global Refugee Crisis”, tenuto al prestigioso Personal Democracy Forum, ha voluto esplorare proprio queste questioni fondamentali: come può la tecnologia svolgere un ruolo realmente positivo per i rifugiati? In che modo la comunità tecnologica può assicurarsi di produrre un vero impatto sul problema?


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Il primo intervento è stato, opportunamente, quello di Abdi Nor Iftin, profugo proveniente dalla Somalia che è oggi membro della no-profit The Telling Room e che ha raccontato in prima persona il suo viaggio disperato, evidenziando come il suo smartphone – tra sms, Whatsapp e Facebook – abbia costituito una vera e propria ancora di salvataggio per lui. Il discorso di Abdi ha dato una dimostrazione concreta di come gli smartphone siano oggi per i profughi un bene essenziale, più o meno tanto quanto il cibo o un tetto sopra la testa. Inoltre, lo smartphone diventa uno strumento fondamentale per far sentire la propria voce: sottolinea infatti Abdi come la tecnologia gli abbia permesso di “parlare in nome di tanti altri somali”.

Sarnata Reynolds, avvocato internazionale per i diritti umani e membro di Strategy for Humanity, ha invece evidenziato come la tecnologia abbia svolto un ruolo importante nell’aiutare le decine di migliaia di apolidi Rohingya che sono fuggiti dalla Birmania nel 2015. L’utilizzo degli smartphone ha infatti permesso ai profughi di mantenersi in contatto con le comunità di provenienza e trovare aiuto nei luoghi di arrivo.

Antonella Napolitano ha poi presentato la piattaforma Open Migration, come esempio di advocacy e story-telling basati sui dati che hanno la forza di scardinare pregiudizi e preconcetti sulle migrazioni, influenzando in positivo il framing mediatico della questione.

Lina Srivastava, fondatrice di CIEL, ha invece raccontato dei progetti di narrazione interattiva implementati in Messico e negli Stati Uniti, con i rifugiati dell’America Centrale, ma anche in Turchia con i piccoli profughi siriani.

Cosa è emerso dal dibattito? La tecnologia può e deve avere un ruolo importante nell’aiutare sfollati, migranti, richiedenti asilo e rifugiati – ma la condizione fondamentale perché questo avvenga è che tali soggetti devono essere messi in condizione di partecipare attivamente al processo decisionale ed assumere un ruolo centrale e attivo nel dibattito.

 

Questo post è una traduzione sintetica dell’articolo di Lina Srivastava per Civicist.
(Image by Internews Europe via Flickr Creative Commons)