A quale prezzo? Gli attivisti che difendono l’ambiente a costo della vita
In tutto il mondo attivisti e difensori dei diritti umani sono costantemente in pericolo. Solo nel 2017, stando al rapporto di Frontline Defenders, sono stati uccisi oltre 300 militanti attivi nei campi più disparati. Ma c’è un settore in particolare in cui gli attivisti sono più a rischio che altrove: quasi il 70 per cento delle persone uccise per le loro battaglie lo scorso anno era impegnato nella difesa dell’ambiente, delle terre e dei diritti delle popolazioni indigene.
Proprio ai difensori dell’ambiente uccisi nel 2017, è dedicato il rapporto di Global Witness: At What Cost? che ci fornisce gli strumenti per capire i motivi di tanto spargimento di sangue.
Motivi che ci toccano nel nostro quotidiano più di quanto potremmo immaginare.
Una guerra sotto traccia
Il cibo nei nostri piatti, i nostri vestiti, uno smartphone, i mobili delle nostre case: c’è una realtà violenta dietro gli oggetti domestici che usiamo tutti i giorni. Mentre grazie al boom dell’industria agroalimentare, al taglio di legname pregiato, allo sfruttamento di nuovi bacini minerari aumentano i profitti delle grandi multinazionali, difendere l’ambiente non è mai stato così pericoloso: quattro omicidi a settimana per un totale di 207 attivisti uccisi.
Per Global Witness il 2017 è stato l’anno peggiore registrato finora – nel 2016 c’erano stati 200 omicidi tra i difensori dell’ambiente, 116 nel 2014 – e, come conferma la Ong, i numeri sarebbero ancora più drammatici se non fosse così difficile mappare i delitti a causa della mancanza di denunce e dell’impunità dei responsabili.
Ad uccidere sono bande di criminali e paramilitari, ma i responsabili vanno ricercati negli apparati statali e nelle industrie che, sempre più spesso, agiscono al di fuori della legalità per conseguire facili guadagni.
A rimetterci, oltre all’ambiente, sono gli attivisti locali di ventidue Stati: il Brasile con 57 omicidi è in cima a questa poco invidiabile classifica, seguito dalle Filippine (48 omicidi), Colombia (24) e Messico (15). Il 60 per cento delle uccisioni è avvenuto in America Latina.
Le responsabilità del settore agroalimentare
Per capire come un conflitto globale abbia a che fare con la vita di tutti i giorni, basta entrare in un supermercato: olio di palma, caffè, cacao, avocado, banane, zucchero, soia – la probabilità che questi siano frutto di espropri, uccisioni e violazioni dei diritti umani è molto alta.
Rispetto al 2016 infatti, il numero di persone uccise mentre protestava contro forme di agricoltura e allevamento intensivo sono più che raddoppiate. Il settore agroalimentare è diventato così il più invadente e brutale nei confronti delle popolazioni autoctone e soprattutto il più pericoloso da contrastare – è responsabile da solo dell’uccisione di 46 attivisti – scavalcando l’industria mineraria in questo triste primato (responsabile di 40 morti). Seguono le vittime della lotta al bracconaggio, al disboscamento, alle dighe e allo sfruttamento dell’acqua per fini meramente industriali.
Il caso Maldonado
Se spesso le lotte delle comunità locali e degli attivisti faticano ad attraversare i confini e a raggiungere l’opinione pubblica estera, molto clamore aveva invece avuto la vicenda del giovane argentino Santiago Maldonado.
Attivista per i diritti della popolazione Mapuche – che da anni chiedono di vedere rispettato il diritto a vivere nei loro territori originari – Maldonado era scomparso mentre manifestava nella comunità di “Pu Lof en Resistencia” di Cushamen, località del sud del Paese, al confine con il Cile, su terre di proprietà del Gruppo Benetton.
Il suo corpo senza vita era stato ritrovato 78 giorni dopo, il 17 ottobre, nel Rio Chobut.
Nell’immediatezza del ritrovamento del corpo del giovane attivista anche la nostra Coalizione si era mobilitata per reclamare verità e giustizia. Con una lettera aperta all’AD di Benetton Tommaso Brusò, si chiedeva al gruppo di prendere pubblicamente posizione sulla vicenda Maldonado, nonché di aprire un dialogo con la popolazione indigena Mapuche, affinché il loro diritto alla terra fosse pienamente rispettato. Da questa iniziativa era nata anche un’interrogazione parlamentare.
A quale prezzo?
Far sentire le nostre voci con i governi e le multinazionali per dare risonanza alle istanze degli attivisti e delle comunità locali è proprio una delle indicazioni che Global Witness suggerisce nel suo rapporto.
Inquinamento, sfruttamento intensivo della terra, disboscamento, anche se commessi lontano dai nostri paesi, riguardano tutti noi. Proprio a noi nel nostro piccolo, nella nostra quotidianità di consumatori è rivolta la domanda che dà il titolo al rapporto. A quale prezzo? Per molti è stato perdere la vita.
Immagine di copertina via Flickr/Jonathan M Talbot