“Un anno in carcere”. Presentato il nuovo rapporto di Antigone
Una popolazione, quella carceraria, ancora in crescita: lo evidenzia il quattordicesimo rapporto annuale sulle condizioni di detenzione di Antigone, presentato lo scorso 19 aprile, che raccoglie i risultati di un anno di monitoraggio (e ben 86 visite) nelle carceri da parte dell’Osservatorio dell’Associazione e di ricerca e assistenza legale prestata ai detenuti dal Difensore Civico. Il testo, intitolato “Un anno in carcere”, rileva infatti anche quest’anno, così come nel 2017, la crescita dei numeri della popolazione detenuta. A questo dato, tuttavia, non corrisponde l’aumento nel numero dei crimini commessi, che al contrario sono in diminuzione.
Il documento illustra inoltre la situazione del sovraffollamento nelle carceri, analizza il quadro sulla composizione della popolazione carceraria e svela la relazione indissolubile tra la questione carceraria e la sicurezza del Paese.
Stranieri in carcere: il grande bluff populista
Mentre si è assistito nel 2017 a una crescita della popolazione carceraria in termini generali, lo stesso non può dirsi in riferimento alla presenza degli stranieri in carcere. A partire dal 2003, alla più che triplicazione degli stranieri residenti in Italia è seguita, in termini percentuali, una quasi riduzione di tre volte del loro tasso di detenzione. Rispetto al 2008 ci sono duemila detenuti stranieri in meno e, in alcuni casi, il tasso di detenzione nelle comunità straniere risulta inferiore rispetto al tasso di detenzione dei cittadini italiani.
La retorica dell’invasione degli stranieri “pericolosi” che vengono nel nostro paese per delinquere non è supportata dai dati reali che provengono dalle nostre carceri. Dall’analisi dei dati sulle pene inflitte agli stranieri e sulle tipologie di reati a costoro imputati, risulta che al crescere della gravità del reato diminuisce l’incidenza della componente straniera. All’aumentare della pena inflitta, e dunque della gravità del fatto commesso, corrisponde una diminuzione della percentuale degli stranieri in generale sulla popolazione carceraria totale. Gli stranieri passano infatti dall’essere circa il 46% dei detenuti condannati a meno di un anno a circa il 6% del totale di quelli condannati all’ergastolo. Inoltre, la presenza di stranieri in carcere è principalmente dovuta al fatto che nei loro confronti si usa in misura ben più ponderosa la custodia cautelare. Infatti, mentre i detenuti stranieri costituiscono il 37,7% del totale dei detenuti in attesa del primo giudizio, i condannati in via definitiva stranieri sono il 31,4% del totale dei detenuti condannati. Questo dimostra che man mano che si arriva a condanna, diminuisce la percentuale degli stranieri.
Il rapporto evidenzia inoltre che il patto di inclusione paga, garantendo sicurezza. Paradigmatico è l’esempio della comunità romena: all’aumentare della presenza quantitativa di cittadini romeni in Italia, è diminuita nettamente sia in termini assoluti che percentuali la presenza di detenuti romeni nelle prigioni italiane. L’analisi della presenza dei cittadini rumeni in carcere dimostra inoltre come gli allarmismi diffusi presso l’opinione pubblica in riferimento a questa comunità siano privi di una base statistica: ad esempio, nonostante sia comune lo stereotipo secondo il quale i rumeni sono “dediti ai furti”, solo il 23% delle imputazioni riguardanti cittadini rumeni si riferisce a reati contro il patrimonio, una percentuale persino leggermente più bassa di quella relativa agli italiani (25%).
Questi dati sono straordinari in termini di sicurezza collettiva e rivelano, come sottolinea Patrizio Gonnella, come “ogni allarme, artificiosamente alimentato durante la recente campagna elettorale, sia ingiustificato.” Simili conclusioni erano state tratte da Gonnella in questo articolo del 2017 con particolare riferimento alla criminalità rumena.
Il rapporto dunque mostra che non c’è un’emergenza stranieri e non c’è correlazione tra i flussi di migranti – in vario modo e a vario titolo – in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere.
La Costituzione non parla di “pena”, ma di “pene”: le misure alternative alla detenzione
Il rapporto si confronta con la diffusa convinzione secondo la quale ogni vicenda penale che non si traduca in detenzione rappresenti un attentato alla certezza della pena. Tuttavia, poiché la Costituzione repubblicana non parla di “pena”, ma di “pene” (Art. 27), è certo che ci debbano essere pene diverse dalla detenzione. Ma quali sono? E soprattutto, sono davvero alternative alla detenzione? O sono piuttosto alternative alla libertà?
Rispondere a queste domande non è semplice. Gli obiettivi che in genere si intende perseguire implementando le misure alternative al carcere sono la deflazione della popolazione detenuta e la riduzione della recidiva. Da quando esistono, le alternative alla detenzione crescono assieme alla popolazione detenuta, e non si verifica quasi mai che un andamento crescente delle alternative alla detenzione si accompagni ad un calo della detenzione stessa. Questa crescita parallela è segno di una complessiva crescita del numero delle persone sottoposte a controllo penale, e semmai si può dire che in assenza delle alternative il carcere crescerebbe ancora di più. Negli ultimi tre decenni, inoltre, le misure alternative alla detenzione hanno dimostrato di essere un ben più valido strumento di abbattimento della recidiva, di tutela della sicurezza e di risparmio economico rispetto alla pena detentiva. L’efficacia delle misure alternative in termini di riduzione della recidiva è dimostrata dal fatto che solo il 19% dei condannati in esecuzione penale esterna commette nuovi reati, una volta estinta la pena, a fronte del 70% dei detenuti in carcere. Un altro dato rilevante è quello relativo alle revoche: infatti, i numeri sono estremamente bassi (il 5,92% nel complesso), soprattutto se consideriamo le revoche per commissione di nuovi reati (0,71%).
La riforma che non c’è
Il 2017 avrebbe dovuto essere l’anno della “svolta” per il sistema penitenziario italiano. Era atteso un nuovo ordinamento penitenziario, che, dopo quarant’anni avrebbe dovuto modificare e “ammodernare” l’impianto originario del 1975. Tuttavia, la riforma ha avuto tempi (troppo) lunghi, ed il rischio concretissimo è che il lavoro svolto negli ultimi tre anni non abbia alcun impatto sulla realtà penitenziaria e sulla sicurezza del Paese. Così com’è oggi, il carcere rende l’Italia insicura, agevolando la recidiva e deludendo l’obiettivo costituzionale della “rieducazione”.
La riforma prevede, da un lato, una maggior tutela dei diritti della persona detenuta e al rispetto della sua dignità e, dall’altro, un ampliamento delle possibilità di accesso alle misure alternative al carcere. Nonostante le norme previste non prevedano una riforma complessiva, esse fanno tuttavia un passo nella giusta direzione. La riforma rappresenta dunque un’occasione da cogliere, al fine di migliorare la qualità della vita nelle carceri e di spostare l’asse dal carcere all’esecuzione penale esterna.
Anche quest’anno Antigone ha scelto di pubblicare il suo rapporto online, su un supporto digitale dall’accesso completamente gratuito, con la speranza che possa essere uno strumento di informazione più ampia possibile.
Flaminia Delle Cese, laureata in Giurisprudenza, LLM candidate International Human Rights and Humanitarian Law at University of Essex, tirocinante nella Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili.