Whistleblowing: finalmente una legge per chi denuncia la corruzione
Facciamo un po’ di chiarezza sulle tutele per i dipendenti pubblici e privati che segnalano gravi irregolarità sul posto di lavoro: cosa cambia con la nuova legge sul whistleblowing?
Il 15 novembre 2017 la Camera dei Deputati ha approvato il testo di legge che introduce anche in Italia le tutele per i whistleblower (dipendenti pubblici e privati) che segnalano illeciti sul posto di lavoro. La legge è nata dall’iniziativa di Francesca Businarolo (M5S), con lo scopo di migliorare la regolamentazione del settore pubblico e porre le basi per migliori tutele nel settore privato.
Forse pochi sanno però che una regolamentazione in materia pubblica era già esistente e dunque non si è partiti da zero: quello a cui mi riferisco è l’articolo 54-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, “Tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti”. Questo articolo era stato inserito all’interno del decreto legislativo succitato dalla celebre legge Severino, la 190/2012, in tema di repressione e prevenzione della corruzione.
Nel 2013, la deputata Businarolo mette nero su bianco, insieme ad altri deputati ed alla collaborazione di TI-Italia, la prima proposta di legge a tutela dei whistleblower. La Camera ne approva il testo nel gennaio 2016 e lo inoltra al Senato. Proprio in questa sede, il testo rimane fermo fino all’ottobre 2017, momento in cui viene vagliato, emendato e dunque rinviato alla Camera per l’approvazione definitiva. La legge che viene approvata il mese successivo è “buona, in grado di fornire corretti canali per segnalare e soprattutto stimolare maggiormente gli enti pubblici e privati a prendere sul serio il tema” spiega Giorgio Fraschini, consulente legale di Transparency International Italia ed esperto di whistleblowing da ormai dieci anni [nota: chi scrive collabora con l’ONG da quasi un anno], che abbiamo intervistato per comprendere al meglio il cambiamento che il ddl whistleblowing ha introdotto
“I provvedimenti previsti dall’articolo 54-bis erano perlopiù di principio, molto limitati” dice Fraschini.
La legge si compone di 3 articoli: il 1° modifica proprio l’articolo 54-bis, riferendosi dunque al dipendente pubblico; il 2° tratta invece della tutela del dipendente nel settore privato, mentre il 3° integra la disciplina dell’obbligo del segreto d’ufficio, aziendale, personale, scientifico e industriale.
Quali tutele per il dipendente pubblico?
“Le migliorie si notano già dal 1° articolo” mi dice Fraschini, “in quanto sono definiti molto specificatamente i canali di cui il dipendente pubblico può usufruire per esercitare il suo diritto. In primis il Responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, già introdotto con la legge 190/2012, poi l’Autorità nazionale anticorruzione (A.N.AC), l’autorità giudiziaria e quella contabile”.
Ma chi è il dipendente pubblico? “La nuova legislazione estende la definizione di dipendente pubblico anche a coloro che lavorano in enti pubblici economici ed in enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico. In questo modo la tutela è davvero garantita anche a coloro che, nonostante siano soggetti al diritto privato, nella pratica lavorano in enti pubblici”, afferma Fraschini. Gli enti pubblici economici presenti in Italia si contano sulle dita di una mano, a dir tanto: Agenzia del Demanio, Agenzia delle entrate-riscossione e la SIAE. Gli enti di diritto privato controllati dallo Stato sono invece innumerevoli e proprio per questo motivo inserire nella legislazione questa fetta di dipendenti era quantomeno necessario a garantire una tutela vera e propria.
Uno degli aspetti più importanti e che le associazioni civili, insieme alla deputata Businarolo, richiedevano a gran voce è poi quello relativo all’anonimato. Segnalare qualcuno, soprattutto in un contesto di piccole dimensioni come lo è la maggior parte dei comuni italiani, si collega alla paura delle ritorsioni che si potrebbero ricevere: dal licenziamento al demansionamento, fino ad arrivare alle minacce al di fuori del contesto lavorativo. Nell’articolo 1 del ddl, si definisce come l’identità del segnalante non possa essere rivelata in alcun modo. A questo proposito, Fraschini chiarisce alcuni aspetti indiretti: “nel momento in cui io segnalante denuncio alle figure definite per legge, la mia segnalazione porta a due momenti distinti a carico del segnalato. Il primo è il procedimento disciplinare, ovviamente nel caso in cui vi siano basi fondate; il secondo è il procedimento penale, che ha lo scopo di indagare la presenza di reati penali come la corruzione o la concussione”.
Il procedimento disciplinare a carico del segnalato è eseguito dall’ente pubblico o privato in questione; spesso, invece, il procedimento contabile si origina dal processo penale, ma non sempre. Difatti un soggetto può liberamente segnalare anche solo alla Corte dei Conti. In sostanza, il procedimento disciplinare è il primo step dopo la segnalazione e può essere seguito da uno di tipo penale e/o contabile. È necessario sottolineare, come afferma Fraschini, che “il segnalante, a seguito della sua segnalazione, viene spesso denunciato per calunnia o diffamazione, due reati già ampiamente regolati dall’ordinamento italiano, e che portano ad un ulteriore procedimento penale a suo carico; nonostante ciò, in tutti questi anni [in cui si è occupato di tutela al segnalante, NdA], non sono stato testimone di casi in cui queste accuse fossero rilevanti in sede penale, in quanto fatte decadere da subito per mancanza di sussistenza”.
Secondo i modi e i limiti previsti dal codice penale, la tutela dell’identità del segnalante può subire delle limitazioni. Se è infatti per legge tutelato in ambito disciplinare, è possibile che in sede processuale (penale e/o contabile) sia necessario svelare l’identità del denunciante, in quanto l’ordinamento giuridico italiano ritiene un diritto dell’imputato di un processo essere a conoscenza del soggetto che ha avanzato tali reati nei suoi confronti. “Purtroppo” – continua Fraschini, – in questi due procedimenti è possibile che la confidenzialità non venga completamente garantita, e questo è un elemento di negatività della legge. Tuttavia, sta nelle capacità del Pubblico ministero ottenere tramite le indagini una quantità di prove sufficienti allo scopo di rendere la testimonianza del segnalante inutile ai fini processuali”.
Maggiori responsabilità per i Responsabili della prevenzione della corruzione (RPC)
Lavorare a stretto contatto con i segnalanti significa imbattersi in numerose difficoltà, fra le quali anche la mancanza di responsabilità dei Responsabili della prevenzione della corruzione (RPC), figure preposte, anche prima di questa nuova legge, al dialogo interno con il whistleblower. “D’ora in poi fare il lavoro di RPC sarà maggiormente responsabilizzato, in quanto la legge prevede chiari comportamenti sia per questi che per l’Autorità che li regola, ovvero l’A.N.AC.” afferma Fraschini. È infatti regolata l’introduzione da parte di A.N.AC. di linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni ed inoltre di modalità informatiche per la promozione di sistemi crittografati per garantire l’anonimato del whistleblower e del contenuto della sua segnalazione.
Inoltre, “mentre fino ad oggi A.N.AC controllava solo l’infondatezza dei fatti denunciati, ora ha potere sanzionatorio diretto nei confronti dei RPC e del loro comportamento”, dice Fraschini. Qualora infatti l’A.N.AC riscontrasse la presenza di misure discriminatorie applicate dall’ente, sanzionerà amministrativamente il RPC fino a 30.000 euro; allo stesso modo, qualora venga accertata l’assenza di procedure di inoltro e gestione della segnalazione, si applicheranno sanzioni fino a 50.000 euro e, in ultimo, il mancato svolgimento di verifiche in merito ai fatti esposti porterà ad una sanzione fino a 50.000 euro.
“Una responsabilità soggettiva del RPC porta sicuramente a maggiore attenzione nei confronti del segnalante e ad una maggiore coscienza del fenomeno. D’ora in poi non si potrà più fare finta di nulla, girarsi dall’altra parte o ancora peggio evitare di prendere in carico una segnalazione per paura di compiere il proprio lavoro. In questo caso, sarà l’Autorità nazionale anticorruzione a fornire il supporto necessario ai RPC che riscontrano tali difficoltà”, aggiunge Fraschini.
Uno degli aspetti più importanti toccati dalla nuova legislazione è quello dell’inversione dell’onere della prova. Nell’ordinamento italiano, il principio giuridico dell’onere della prova prevede che sia colui che dimostra l’esistenza di un fatto a doverne annettere le prove a supporto: è comprensibile come, in questo caso, il segnalante fino ad oggi poco tutelato avesse il compito (talvolta arduo) di dimostrare di aver subìto discriminazioni sul luogo di lavoro a causa della propria segnalazione. “Ora è invece il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare che le misure discriminatorie o ritorsive messe in atto nei confronti del dipendente dipendevano da motivi estranei alla segnalazione. In caso di mancanza di prove, tutte queste azioni sono nulle”, mi chiarisce Fraschini.
Le tutele fin qui riportate non hanno seguito nel momento in cui il segnalante, anche con sentenza di primo grado, viene condannato per calunnia o diffamazione (penalmente o civilmente).
E per il settore privato?
La legge sul whistleblowing è ancora piuttosto embrionale. Anche per questo settore viene ripreso quanto già fatto: i modelli organizzativi delle aziende, adottati allo scopo di migliorare i processi interni, sono presenti in molte realtà aziendali poiché fungono da esimente per gli enti contro la responsabilità penale per una lunga serie di reati. La normativa ha dunque cercato di integrare canali protetti di segnalazione a favore dei dipendenti che, tuttavia, sono stimolati a presentare segnalazione circostanziata e fondata su elementi precisi e concordanti.
“Il dipendente privato è salvaguardato da atti di ritorsione per i quali la legge prevede sanzioni nei confronti degli autori. Inoltre, il licenziamento dovuto a discriminazioni è nullo. A questo viene integrata anche la questione relativa ai vari segreti coperti dal codice penale: il contenuto di una segnalazione potrà portare alla rivelazione di un segreto d’ufficio, aziendale, personale, scientifico o industriale, rendendone la pubblicità utile al perseguimento dell’interesse e dell’integrità delle PA e delle aziende” risponde Fraschini. A questo proposito sarà interessante scoprire, non prima della pronuncia di alcune sentenze, il parere delle corti in merito ad un aspetto così importante quanto delicato.
Fragilità e previsioni future
La legislazione, ricollegandoci a quanto detto da Giorgio Fraschini, è esaustiva, soprattutto nel settore pubblico, e fornisce finalmente delle tutele importanti nei confronti dei segnalanti. Tuttavia i whistleblower meritano, anche in Italia, una normativa che possa colmare totalmente il quasi vuoto a cui eravamo abituati finora. Mi riferisco precisamente ad una completa garanzia della riservatezza del segnalante, anche e soprattutto nei procedimenti penali e contabili, possibile grazie a mirate ed adeguate investigazioni da parte del Pubblico Ministero, ad uno sviluppo della regolamentazione nel settore privato (ancora incompleta); e, soprattutto, alla mancanza di un fondo di garanzia per i whistleblower che, a seguito del licenziamento subìto e della lunghezza eccessiva dei procedimenti giudiziari, rischia di rimanere per alcuni anni senza nessun sostentamento economico.
Perché non aiutare chi denuncia, ad esempio, con i soldi risarciti dai datori di lavoro? Lasciamo la risposta al legislatore.
Nella foto di copertina: la consegna di una petizione a sostegno della legge al Presidente del Senato Pietro Grasso. Tutte le foto sono state gentilmente concesse da Transparency International Italia.