Omosessuali e islamici. Il dialogo per la ‘normalizzazione’
“Essere gay e musulmani è come essere gay e cristiani o essere gay ed ebrei. Non c’è differenza. Solitamente questa domanda viene rivolta più a noi perché sono pochi i gay di religione musulmana che hanno dichiarato la loro omosessualità, e quindi desta curiosità il fatto che esistano persona gay nel mondo islamico”. A dircelo è Wajahat Abbas, attivista dei diritti umani e regista indipendente, rispondendo alla nostra domanda su cosa significhi essere gay e musulmani.
Un convegno sul ruolo delle comunità LGBT nel dialogo interreligioso
Insieme ad altri ospiti, anche lui il prossimo 18 settembre parteciperà al convegno “La lezione delle differenze: il ruolo delle comunità LGBT nel dialogo ebraico-musulmano” organizzato a Roma dalla nostra Coalizione in collaborazione con il gruppo ebraico LGBT Magen David Keshet Italia.
Sarà questo convegno il luogo dove inaugurare un dibattito (e una sfida!) attorno al fatto che possa essere – o meno – proprio la comunità LGBT il luogo da cui partire per favorire un dialogo tra le diverse comunità religiose e tra queste e quelle laiche. L’appartenere ad una comunità religiosa, infatti, per una persona LGBT può significare subire ulteriori discriminazioni (rispetto a quelle già patite per il proprio orientamento sessuale). Ma sono proprio queste che stanno facendo emergere nuove forme di militanza, di dialogo, di relazioni e una capacità di supportarsi che altrove è quasi impossibile registrare.
Islam e omosessualità
Proprio in vista di questo convegno abbiamo avuto una conversazione con Abbas sul rapporto tra Islam e omosessualità partendo, innanzitutto, proprio dal domandargli se nella religione islamica ci sia spazio per chi è omosessuale.
Sì, è la sua risposta, perché “l’Islam è una religione moderna nella quale c’è spazio per tutti, sia per gli eterosessuali che per i gay. Il vero Islam insegna la tolleranza verso le minoranze. Addirittura diventa responsabilità dei musulmani prendersi cura di quelle che vivono intorno a loro”.
“L’Islam – ci continua a raccontare Abbas – non ha mai condannato l’omosessualità. Le persecuzioni che avvengono verso chi si dichiara gay, soprattutto nei paesi islamici, derivano da una sbagliata lettura del Corano – a cui noi proviamo a contrapporre una interpretazione positiva della tematica dell’omosessualità”.
Interpretazione che parte anche dallo studio della religione, e cioè quello che è mancato in questi anni nell’Islam, secondo l’attivista, su temi quali l’orientamento sessuale e l’omosessualità. “Su quest’ultima – ci dice ancora Abbas – ho dovute compiere una mia ricerca personale: da solo ho dovuto cercare lo spazio per i gay nella mia religione, perché nessuno ha ancora aperto un vero dibattito su questo tema”.
È tuttavia indubbio che nel mondo islamico la maggioranza dei musulmani pensi che essere gay sia una malattia e che le persone omosessuali non siano normali. Per questo il lavoro che va fatto all’interno di questa comunità è un lavoro di ‘normalizzazione’, come lo definisce Abbas. Ed è proprio nell’ottica di questo ritorno alla normalità che convegni come quelli del 18 settembre, ci dice l’attivista, sono molto importanti per costruire, tramite questi spazi di dialogo tra comunità religiose diverse, ponti di pace e tolleranza contro l’odio, anche quello presente nelle stesse comunità di appartenenza.
Qualche settimana dopo il convegno Wajahat Abbas tornerà in Pakistan con alcuni attivisti della sua associazione “Il grande Colibrì” per girare il documentario Allah Loves Equality, attività resa possibile grazie ad un crowdfunding ancora aperto. L’obiettivo è quello, importante, di raccogliere e raccontare tante storie di persone omosessuali: “Sarà un viaggio duro, che richiederà un grande impegno e che potrà essere anche molto pericoloso, ma credo sia arrivato il momento nel quale è importante far vedere al mondo cosa sta accadendo davvero nei paesi musulmani con le persone omosessuali e rompere questo tabù”.