La Cassazione apre alla possibilità di avere giustizia climatica in Italia

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Di Marco Biondi

Il 21 luglio la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha pubblicato una sentenza che stabilisce la possibilità di avere giustizia climatica in Italia.

 

Nel maggio 2023, le associazioni Greenpeace e ReCommon, insieme a 12 cittadine e cittadini, avevano presentato una causa civile nei confronti di ENI, di Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (CDP) e del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF)– questi ultimi due enti in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante su ENI – per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui il colosso italiano del gas e del petrolio ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole

Le due associazioni, come riportato dal Guardian, hanno rintracciato un rapporto del 1978 in cui Tecneco (una società del gruppo Eni) prevedeva con buona precisione l’aumento della concentrazione di anidride carbonica — il principale gas serra — nell’atmosfera entro la fine del XX secolo. Il documento riportava anche l’opinione di alcuni scienziati, secondo cui questo fenomeno avrebbe potuto rappresentare un problema a lungo termine, con il rischio di innescare un cambiamento climatico dalle gravi conseguenze.

Il “contenzioso climatico”, ovvero quell’insieme di azioni legali che permettono di portare in tribunale governi e aziende responsabili di politiche inefficienti o pratiche dannose che alimentano la crisi climatica, può dunque essere uno strumento di cambiamento anche in Italia. A differenza di quanto ritenuto dai tre soggetti chiamati a rispondere della causa civile, che avevano sostenuto che una causa climatica non fosse procedibile nel nostro ordinamento, è possibile portare avanti la “giusta causa”. 

La decisione della Suprema Corte stabilisce senza dubbio alcuno che i giudici italiani si possano pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico in base alla normativa nazionale e alla normativa internazionale e che le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera. “La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace Italia e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende, quali Eni”, dichiara Greenpeace nel suo comunicato stampa. 

Nella propria decisione la Suprema Corte richiama la sentenza della Corte EDU del 9 aprile 2024, Verein KlimaSeniorinnen Schweiz c. Suisse, che, “nel dichiarare ammissibile la domanda di un’associazione di diritto svizzero e di alcuni cittadini, volta a far valere omissioni delle autorità statali nel settore dei cambiamenti climatici, ha riconosciuto la complementarità dell’intervento giudiziario rispetto ai processi democratici, affermando che, pur non potendo sostituire l’azione del Potere legislativo ed esecutivo, il compito della magistratura consiste nel garantire il rispetto dei requisiti legali”.

La prima sentenza di condanna pronunciata nei confronti di uno Stato per non aver adempiuto agli obblighi assunti nella prevenzione, controllo e repressione del cambiamento climatico, è stata quella del tribunale di Parigi nel febbraio 2021, come spiegato dall’associazione Strali. Le quattro ONG promotrici della causa erano Greenpeace, Oxfam, Fondazione Nicolas Hulot e Notre Affaire à tous, che avevano raccolto 2,3 milioni di firme per una petizione in cui chiedevano al governo di rispettare gli accordi sul clima prima di intraprendere la causa giudiziaria per far vedere riconoscere la violazione francese degli accordi di Parigi del 2015.

Come riportato dal Post, in Italia c’era stato un precedente, meglio conosciuto come “Giudizio Universale”: <<tra il 2021 e il 2024 c’era stata un’altra causa riguardo al cambiamento climatico in Italia, sempre presentata davanti al tribunale di Roma: in quel caso 24 associazioni e 179 persone avevano fatto causa allo Stato, rappresentato dalla presidenza del Consiglio dei ministri, affinché gli fosse ordinato di ridurre le emissioni di gas serra nazionali del 92 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Il tribunale di Roma tuttavia aveva ritenuto di non avere la giurisdizione per esprimersi perché le azioni dei governi in merito al contrasto del cambiamento climatico dipendono da decisioni politiche che riguardano “valutazioni discrezionali di ordine socioeconomico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana”>>.

Negli stessi giorni è arrivato un importante parere della Corte di Giustizia Internazionale sugli obblighi giuridici dei Paesi di prevenire il cambiamento climatico: “Le conseguenze del cambiamento climatico sono gravi e di vasta portata: colpiscono sia gli ecosistemi naturali che le popolazioni umane. Queste conseguenze sottolineano l’urgente ed esistenziale minaccia rappresentata dal cambiamento climatico”, si legge nel parere consultivo. Questo parere della Corte Suprema delle Nazioni Unite, pur non essendo vincolante, potrebbe avere un peso sulla giustizia climatica a livello globale.

Come CILD ci stiamo impegnando per promuovere la giustizia climatica attraverso il progetto STRIVE – (Strengthening the Rule of law through Innovative Voice of Europe). STRIVE combina l’analisi giuridica strategica con la promozione della partecipazione civica e l’advocacy per rafforzare la protezione dei diritti fondamentali nei confronti degli impatti della crisi climatica, in particolare a livello europeo e italiano, mettendo al centro le comunità più vulnerabili e valorizzando le sinergie tra diritti ambientali e diritti umani.