In fumo il progetto Meloni-Rama, l’attacco alla magistratura.
Di Sara Gherardi
Grazie a una recentissima sentenza della Corte di Giustizia Ue, è bastata una settimana per mandare in fumo il progetto italiano in territorio albanese per la gestione dei migranti. Le alte cariche del governo Meloni si scagliano contro la magistratura e cercano di aggirare le norme comunitarie. Mattarella richiama al rispetto della separazione dei poteri in un clima di progressiva erosione dello stato di diritto.
Il 13 ottobre il governo italiano ha annunciato l’apertura dei centri per migranti in Albania, segnando l’avvio effettivo del protocollo Meloni-Rama firmato a novembre 2023. Il giorno seguente, la nave Libra della Marina Militare ha proceduto con il primo affiancamento di una nave della Guardia Costiera italiana con a bordo persone migranti salvate in mare. Il primo screening è avvenuto a bordo della Libra e ha portato all’individuazione di 16 persone di nazionalità egiziana e bengalese che hanno dovuto affrontare altri tre giorni di navigazione verso l’Albania.
Da qui diversi eventi hanno provato il fallimento di questa operazione e, presumibilmente, dell’intero progetto di Meloni in territorio albanese. Da un ulteriore screening effettuato nel centro di prima accoglienza costruito nel porto di Shengjin, è emerso infatti inizialmente che, tra queste 16 persone, due erano in realtà minori e altre due presentavano elementi di vulnerabilità. Queste condizioni escludono la deportazione in Albania, perciò sono state subito riportate da un’imbarcazione della Guardia di Finanza a bordo della nave Libra, direzione Brindisi. Secondo il protocollo, le strutture costruite sul territorio albanese sono infatti destinate unicamente a uomini adulti soccorsi dalla Guardia Costiera italiana, provenienti da paesi considerati sicuri e privi di condizioni di vulnerabilità, anche se una recente indagine ha portato alla luce alcuni dettagli del contratto di appalto vinto dalla cooperativa Medihospes per la gestione dei centri che farebbero pensare diversamente. Nei documenti di gara la prefettura di Roma richiede infatti che siano previste attività per il tempo libero dei minori e servizi specifici per supportare persone vulnerabili, vittime di tratta o tortura, contraddicendo le condizioni stablite dallo stesso protocollo.
I restanti 12 uomini provenienti da Egitto e Bangladesh, paesi considerati sicuri, sono stati sottoposti a procedura accelerata e il 17 ottobre la Questura di Roma ha disposto per il loro trasferimento nel centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Gjader. Tuttavia, con grande sorpresa di Meloni, il Tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento. Appellandosi a una recente sentenza della Corte di Giustizia europea, il tribunale ha disposto che i 12 cittadini egiziani e bengalesi siano liberati e portati in Italia dove potranno entrare nel sistema di accoglienza ordinario in attesa di un verdetto sulla loro richiesta di asilo.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza C-406/22) risale al 4 ottobre e fa riferimento ad un caso sollevato da un cittadino Moldavo contro la Repubblica Ceca. La sentenza si esprime sulle modalità di designazione della lista di “paesi di origine sicuri”, la cui appartenenza porta all’applicazione diretta e generalizzata della procedura accelerata. La Corte ha stabilito infatti che «la designazione di un Paese come paese di origine sicuro dipende (…) dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’articolo 9 della direttiva2011/95, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti» (punto 68), e «Le condizioni stabilite in tale allegato devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato affinché quest’ultimo sia designato come paese di origine sicuro» (punto 69). Il Tribunale competente deve quindi verificare ex nunc i presupposti sopracitati (punto 90 e 91). Di conseguenza, si esclude l’applicazione diretta dell’iter di procedura accelerata sulla mera base della provenienza della persona richiedente da un paese identificato come sicuro.
Dato il rango superiore della giurisprudenza dell’Unione, la sentenza è direttamente vincolante a livello domestico in Italia come in ogni altro stato membro dell’Unione. Questa sentenza è particolarmente cruciale nel contesto del protocollo Italia-Albania, poiché lo svuota dei suoi presupposti. Difatti viene confutato il concetto stesso di paese sicuro, escludendo l’applicazione diretta e generalizzata della procedura accelerata, automatismo che finora veniva strumentalizzato per legittimare l’esternalizzazione in Albania.
Di fronte a questo chiaro fallimento, le massime figure dell’esecutivo Meloni hanno reagito scagliandosi contro la magistratura, accusata di avere politicizzato la decisione sulla sorte delle 12 persone deportate in Albania. In primis il Ministro della Giustizia Nordio, che ha definito “abnorme” la sentenza del Tribunale di Roma, continuando: “La sentenza della Corte Ue non è stata disapplicata da noi, ma male interpretata dai nostri giudici. La definizione di “paese sicuro” non può spettare alla magistratura, ma è una valutazione esclusivamente politica pur nei parametri del diritto internazionale”, perché a dir suo potrebbe avere anche “conseguenze diplomatiche”. In un’intervista su Repubblica, il Ministro ha poi dichiarato che “se la magistratura esonda bisogna intervenire”. Sulla stessa linea, il Presidente del Senato La Russa ha commentato: “Nei casi grigi a volte si intende affermare la propria visione del mondo. Questa lettura forse può spiegare la sentenza sul centro in Albania”. E continua sostenendo che per far fronte alle decisioni politicizzate della magistratura sia necessaria una riforma costituzionale per ridefinire il rapporto tra politica e magistratura.
Negli ultimi due anni abbiamo assistito ad attacchi alla magistratura da parte del governo sempre più frequenti, in un clima di crescente erosione dello stato di diritto in Italia. CILD e altre organizzazioni della società civile hanno più volte denunciato questo preoccupante processo in corso, che segna una graduale erosione dello spazio civico e una sfida continua ai principi democratici. In riferimento ai fatti di questi giorni Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, afferma: “Quando il potere alza la voce contro quei giudici che si stanno occupando di loro o delle loro scelte vuole semplicemente e consapevolmente rompere quell’equilibrio tra poteri sul quale si fonda il patto costituzionale democratico”.
Meloni ha poi attaccato pubblicamente i colleghi dell’opposizione per aver riferito un’interrogazione alla Commissione europea per aprire una procedura di infrazione del Protocollo con l’Albania con la legge europea. Lo ha definito “un comportamento semplicemente scandaloso e irresponsabile”. E continua: “alcuni partiti italiani stanno di fatto sollecitando l’Europa a sanzionare la propria Nazione e i propri cittadini, con il solo obiettivo di colpire politicamente questo Governo. Una vergogna che non può passare inosservata”. Inoltre, ha accusato il Partito Democratico di interferire con la magistratura: “Alcuni di questi giudici avevano criticato l’accordo con l’Albania ancora prima di entrare nel merito. Temo che debba anche colpire il fatto che questa decisione dei giudici è stata anticipata ieri da alcuni esponenti del Partito Democratico”. Questo anche se, fin dalla pronuncia della sentenza da parte della Corte di Giustizia europea, erano molti gli osservatori che si aspettavano questo epilogo rispetto ai centri in Albania.
In questo clima di tensione tra politica e magistratura, è intervenuto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, richiamando le istituzioni all’ordine democratico: “Vi sono dei momenti nella vita di ogni istituzione in cui non è possibile limitarsi ad affermare la propria visione delle cose – approfondendo solchi e contrapposizioni – ma occorre saper esercitare capacità di mediazione e di sintesi”.
In risposta a questa situazione, lunedì 21 ottobre Meloni ha convocato il Consiglio dei Ministri. È stato approvato un decreto legge ad hoc sui paesi sicuri, conferendo alla norma forza primaria. Finora invece, la lista veniva aggiornata annualmente tramite decreto interministeriale – del Ministero degli Esteri, congiunto con Ministero dell’Interno e della Giustizia – e dunque aveva forza di norma secondaria. Nel nuovo decreto legge, sono 19 i paesi di origine ritenuti sicuri, a fronte dei precedenti 22 – sono stati esclusi Camerun, Colombia e Nigeria, per i quali erano previste eccezioni di carattere territoriale, punto critico sollevato dalla stessa sentenza della CGUE.
Nella conferenza stampa che annuncia il nuovo decreto legge, il Ministro della Giustizia Nordio ha sottolineato nuovamente la diffidenza del governo rispetto al provvedimento adottato dai giudici di Roma in applicazione della sentenza Ue, affermando che “nasce da una sentenza della Corte di giustizia europea molto complessa e articolata e anche scritta in francese, probabilmente non è stata ben compresa o ben letta”. Ancora Nordio: “Nel momento in cui l’elenco dei Paesi sicuri è inserito in una legge, il giudice non può disapplicarla. Tenderei a escludere che possa disapplicarla. A maggior ragione questa sentenza della Corte di giustizia europea non è una direttiva e non è vincolante in via generale astratta (…)”.
In questo braccio di ferro con la magistratura, il decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri mira a sovvertire le dinamiche tra giurisdizione domestica e comunitaria, nel tentativo di salvare il neo-inaugurato progetto di esternalizzazione in Albania. Tuttavia, è proprio Alfredo Mantovano, segretario al Consiglio dei Ministri, a mettere le mani avanti: “Voglio essere chiaro: è molto probabile che i giudici disapplicheranno anche il decreto”. Si tratterebbe infatti di un cosiddetto “decreto mini”, probabilmente contenente una mera lista di paesi sicuri – un segnale politico forte contro le toghe ma con dubbia efficacia rispetto alla ferma volontà della magistratura di far prevalere il diritto dell’Unione contro ogni trattenimento in Albania.
Come denunciato da ASGI, questo scontro tra istituzioni “mina alle fondamenta i principi e la forma costituzionali dello Stato democratico, strumentalizzando e facendo convergere la questione “Albania” nel chiaro obiettivo di sovvertire l’equilibrio e le funzioni degli organi costituzionali”. In un report appena pubblicato dalla Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI), anche il Consiglio d’Europa richiama l’Italia: “le eccessive critiche rivolte a singoli giudici che si occupano di casi di migrazione mettono a rischio la loro indipendenza.” Attacchi che hanno portato anche a dover riconoscere una scorta ad alcuni di questi giudici. È il caso del Pubblico Ministero del processo che si sta svolgendo a Palermo a carico del Ministro Salvini, accusato di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per i fatti avvenuti nell’agosto 2019.
In conclusione, gli eventi scaturiti a partire dalla decisione del Tribunale di Roma sul destino dei 12 uomini deportati nei centri in Albania, sono il sintomo di un processo più ampio di erosione dello stato di diritto in Italia. Negli ultimi due anni il governo Meloni ha dato il via a un processo di verticalizzazione del potere attraverso la forte criminalizzazione di intere categorie della società civile e un feroce attacco alle istituzioni, al fine di delegittimare il dissenso. Stiamo assistendo alla realizzazione progressiva di questo progetto attraverso decreti ad hoc e intimidazioni. Lo spazio civico viene progressivamente eroso e l’indipendenza delle istituzioni è costantemente minacciata dalla politica. La possibile modifica dell’ordinamento statale, con l’introduzione del premierato, sarebbe un ulteriore impulso al disequilibrio di poteri e quindi ad una concentrazione eccessiva del potere nelle mani di una sola persona. Per questo, come CILD, ci stiamo opponendo a questa deriva, denunciando con costanza quanto sta accadendo in Italia in questi mesi.