L’uso politico dei CPR: la vicenda di Mansour Doghmosh

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Di Irene Proietto e Arianna Egle Ventre

 

Il 9 settembre il Tribunale del Riesame dell’Aquila ha ordinato per il palestinese Mansour Doghmosh l’immediata scarcerazione, che immediata non è stata. Dal carcere, Mansour è stato subito portato nel Centro di detenzione per il rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria. Per il questore di Cosenza è “socialmente pericoloso” nonostante ne sia appena stata disposta la liberazione proprio per l’assenza di gravi elementi indiziari. Il trattenimento nel CPR non viene convalidato, ma questo caso rappresenta un elemento di preoccupazione rispetto al possibile utilizzo della detenzione amministrativa anche come strumento politico di criminalizzazione del dissenso e della solidarietà.

Secondo l’avvocata Ludovica Formoso, parte del team legale che segue il caso di Mansour «per descrivere questo procedimento penale bisogna fare un passo indietro». Riavvolgendo il filo si arriva fino a marzo del 2024 quando Mansour viene arrestato. Insieme a lui ci sono  Ali Irar e Anan Yaeesh, anche loro palestinesi. L’arresto è motivato dall’apertura di un’indagine per associazione con finalità di terrorismo internazionale (270bis c.p.), che ha come oggetto la presunta pianificazione di attività terroristiche nel territorio occupato della Cisgiordania. L’accusa di reato associativo segue un’altra vicenda giudiziaria che sembrava essersi conclusa per Anan: l’attivista della resistenza palestinese era già detenuto da mesi nel carcere di Terni in base a una richiesta di estradizione da parte delle autorità israeliane. Ma, sempre a marzo, la Corte di Appello dell’Aquila ritiene Anan inestradabile vista «la concreta possibilità che venisse sottoposto a tortura, se portato poi in Israele e nelle carceri israeliane». Come commenta la difesa, il rigetto dell’estradizione sarebbe stato verosimile, poiché nel contesto internazionale «sarebbe stato piuttosto eclatante estradare un cittadino palestinese su richiesta di Israele a gennaio del 2024». Ѐ infatti ormai ben nota l’escalation verificatasi a partire dal 7 ottobre del 2023, con le numerose denunce delle organizzazioni umanitarie rispetto alle torture e agli abusi delle Autorità nelle strutture di detenzione israeliane

Questa decisione avrebbe quindi portato alla scarcerazione di Anan, ma pochi giorni prima di essere liberato, il GIP dell’Aquila emette nei suoi confronti l’ordinanza di custodia cautelare per associazione con finalità di terrorismo internazionale (art.270bis c.p.): Anan rimane in carcere e vengono arrestati anche Ali Irar e Mansour Doghmosh. 

Secondo gli atti della Procura, l’accusa che viene mossa contro di loro è quella di aver «promosso, costituito, organizzato, diretto e finanziato una struttura operativa militare denominata “Gruppo di risposta rapide brigate Tulkarem”», considerata «un’articolazione delle brigate dei martiri di Al-Aqsa, operante con le finalità di compimento di atti di violenza a fine di terrorismo, rivolti contro lo Stato estero di Israele, sia in territorio estero sia in territorio italiano». Come commenta Formoso però, le indagini si fondano su «limitate capacità di approfondimento dello Stato Italiano su ciò che avviene in Cisgiordania e su scarsi elementi di accusa». Il 20 agosto la Cassazione annulla l’ordinanza di custodia cautelare per Ali e Mansour. È il 9 settembre quando i due vengono liberati. 

Appena uscito dal carcere è un attimo: Mansour si trova in questura e poco dopo tra le mura di un CPR, nonostante sia del tutto esclusa la possibilità di rimpatrio. 

«Il questore ha disposto il suo trattenimento nel CPR non al fine di rimpatriarlo ma perché affermava che fosse una persona pericolosa» spiega un altro membro dell’equipe difensiva di Mansour. Secondo l’articolo 6 del decreto legislativo 142/2015 il richiedente asilo può infatti essere trattenuto nel caso costituisca “un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica” sulla base di una valutazione della pericolosità che tenga conto di eventuali condanne anche con sentenza non definitiva. Una norma che implica una forte discrezionalità nella valutazione effettuata dalle Autorità di pubblica sicurezza. Uno strumento ad hoc per agire laddove il carcere non riesce ad arrivare. 

«Gli stessi elementi che poi nel procedimento penale sono stati ritenuti carta straccia sono stati ripresi per giustificare un altro trattenimento, questa volta di natura amministrativa, che chiaramente ha molte meno garanzie del processo penale» spiega l’avvocata Formoso. La sentenza della Cassazione aveva già evidenziato come non ci fossero elementi concreti a sostegno delle accuse mosse contro Mansour: come si legge nella pronuncia, la sua pericolosità era stata dedotta dal GIP per aver messo in contatto Anan con una persona sconosciuta che mostrava “particolare circospezione nell’utilizzo del cellulare” prediligendo l’uso di Telegram e sulla base di una foto che lo ritraeva con un fucile da soft-air.  

L’obiettivo sembra chiaro: criminalizzare la contestazione e la solidarietà racchiudendo ogni forma di protesta nella categoria di ‘pericolosità sociale’ sulla base di un concetto di sicurezza che colpisce soprattutto persone migranti e razzializzate. Con il ricatto quotidiano del trattenimento nei CPR e del rimpatrio viene limitata la possibilità di azione (e di protesta) dei richiedenti asilo e delle persone migranti in un contesto che, secondo Formoso «criminalizza ogni forma di dissenso rispetto alla narrazione dominante su come deve essere letto e visto quello che sta succedendo a Gaza. Quindi assistiamo a studenti manganellati e professori che hanno rapporti disciplinari se parlano di Palestina». Un clima di repressione che, dal 7 ottobre, fa nuovamente leva sulla presunta minaccia della radicalizzazione di matrice islamica, tanto da trovare conferma nelle dichiarazioni del Ministro dell’Interno Piantedosi in merito all’aumento delle espulsioni per motivi di “sicurezza nazionale”. 

È questo il filo conduttore che lega il caso di Mansur a quello di Seif Bensouibat, che lo scorso 16 maggio ha visto la propria vita cambiare da un giorno all’altro per aver manifestato il proprio dissenso rispetto a ciò che sta avvenendo a Gaza. Alla revoca dello status di rifugiato e del permesso di soggiorno si aggiunge la perdita del lavoro e  il trattenimento nel CPR di Ponte Galeria per quattro giorni. L’opinione di Seif viene considerata un elemento sufficiente a considerarlo una minaccia per la “Sicurezza dello Stato”  facendo venir meno il suo diritto di rimanere in Italia. Seif ha presentato immediato ricorso alla decisione e il Giudice di Pace non ha convalidato il trattenimento, ma il ricatto dell’espulsione rimane tuttora un peso nella quotidianità di Seif, nonostante corra rischi persecutori in caso di rimpatrio. 

La minaccia costante della deportazione, che si materializza nel sistema CPR, limita fortemente la libertà di protesta delle persone migranti costrette a scontrarsi con una giustizia radicalmente razzista e islamofoba, dove la provenienza della persona influisce nel giudizio delle sue azioni sulla base di un concetto di sicurezza del tutto arbitrario. I casi di Mansour e di Seif raccontano una tendenza preoccupante, che potrebbe andare a peggiorare con il Disegno di Legge governativo n.1660, approvato dalla Camera dei Deputati lo scorso 18 settembre e ora al vaglio del Senato. Se già di per sé il DDL criminalizza il dissenso a tutto tondo, le nuove misure securitarie limiterebbero ulteriormente la libertà d’opinione e di protesta delle persone migranti e razzializzate.

 

Foto copertina via TwitterX/Mediterranea Saving Humans