Fase 2: le risposte ai dubbi su residenza, domicilio, abitazione

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Il 4 maggio è il giorno di inizio della tanto attesa Fase 2. Il Dpcm 26 aprile 2020 introduce, proprio a partire dal 4 maggio, diverse novità, tra le quali, per esempio, “la possibilità delle visite ai propri congiunti che vivono nella stessa Regione e la riapertura di parchi e giardini pubblici, nel rispetto delle prescrizioni sanitarie ed evitando comunque gli assembramenti”.

Si potrà quindi fare visita ai propri congiunti, ma torna anche la possibilità di praticare sport all’aperto e la possibilità per chi si trova fuori dal proprio domicilio, abitazione o residenza di farvi rientro.

Domicilio, abitazione o residenza: molti degli approfondimenti e delle risposte ai dubbi relativi alla Fase 2 – anche le Faq fornite dal Governo – fanno riferimento a questi termini. Ma cosa significano con esattezza?

Ve lo spieghiamo in questa scheda Differenza tra dimora, residenza e domicilio*

La sede giuridica della persona indica il luogo in cui una persona si trova o svolge la propria attività. Ha rilevanza giuridica e il nostro ordinamento ne riconosce tre tipi: la dimora, la residenza e il domicilio. L’anagrafe della popolazione residente (APR) ha la funzione di registrare nominativamente gli abitanti residenti in un determinato Comune, sia in quanto singoli che come componenti di una famiglia o di una convivenza, nonché le successive modifiche che si vengono a creare.

I concetti più importanti dal punto di vista anagrafico sono quelli della dimora, della residenza e del domicilio.

La dimora

La dimora è costituita dal luogo nel quale una persona abita e svolge in maniera continuativa la propria vita personale. Non viene considerato dimora il luogo in un cui una persona si ferma solo per un breve periodo di tempo, come una camera d’albergo o la casa di villeggiatura.

Al contrario, il luogo in cui il soggetto soggiorna in maniera continuativa, eventualmente in base a un titolo valido per una certa durata di tempo, come un contratto di locazione, rileva come dimora. La dimora è il luogo in cui la persona si trova nel momento in cui viene considerata. L’elemento caratterizzante è la precarietà del rapporto tra la persona e il territorio, ed è per questo motivo che la dimora non assume molta rilevanza pratica, anche per la difficoltà di rilevarla. La dimora assume rilevanza per la tenuta dello schedario della popolazione temporanea e in occasione dei censimenti generali della popolazione, in quanto concorre a determinare l’ammontare della popolazione presente in ciascun comune, e quindi nel territorio nazionale.

La residenza

Quando la dimora assume i caratteri della stabilità allora parliamo di residenza. In questo caso esiste l’obbligo per la persona di richiedere l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente ed il diritto correlativo di ottenerla. Il carattere dell’abitualità è ciò che impedisce ad un soggetto di essere residente in più Comuni.

La dimora si può ritenere abituale quando coesistono due elementi, uno soggettivo e uno oggettivo: il primo consiste nella manifestazione di volontà dell’interessato di protrarre indefinitamente la propria permanenza nel Comune, mentre il secondo è rilevato da un insieme di fatti e comportamenti che confermano l’esistenza della suddetta volontà. L’elemento soggettivo è senza dubbio il primo a determinare la stabile dimora, poiché l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente avviene appunto a seguito di una manifestazione di volontà. Spetta poi all’Ufficiale di anagrafe il compito di valutare la dichiarazione resa dall’interessato in relazione a quanto emerge dalla situazione di fatto.

In base a quanto emerge dall’esame integrato di tali due elementi, l’ufficiale di anagrafe prenderà la decisione se iscrivere o meno l’interessato. L’accertamento del possesso dei requisiti per l’iscrizione in anagrafe rimane uno dei punti di più difficile applicazione e motivo di contestazione tra gli ufficiali di anagrafe ed i soggetti richiedenti, nonché tra ufficiali di anagrafe dei diversi Comuni in caso di trasferimento di residenza.

Il concetto di residenza, come affermato da costante giurisprudenza, è fondato sulla dimora abituale del soggetto nel territorio comunale, cioè dall’elemento obiettivo della permanenza in tale luogo, e soggettivo dell’intenzione di avervi stabile dimora, rivelata dalle condizioni di vita e dallo svolgimento delle relazioni sociali.

Non può essere di ostacolo all’iscrizione anagrafica la natura dell’alloggio, quali, ad esempio, un fabbricato privo di licenza di abitabilità ovvero non conforme a prescrizioni urbanistiche, grotte, alloggi, roulotte e simili.

La funzione dell’anagrafe è essenzialmente di rilevare la presenza stabile, comunque situata, di soggetti sul territorio comunale. Tale funzione può essere alterata dalla preoccupazione di tutelare altri interessi, anch’essi degni di considerazione, quali, ad esempio, l’ordine pubblico e l’incolumità pubblica, per la cui tutela dovranno essere azionati idonei strumenti giuridici diversi da quello anagrafico. Ai sensi dell’art. 6 comma 7 del Testo Unico immigrazione la permanenza superiore a 3 mesi in un centro di accoglienza costituisce dimora abituale e pertanto legittima la richiesta di iscrizione anagrafica, il che peraltro non impedisce di ottenere l’iscrizione anagrafica anche prima di tale periodo.

In mancanza della dimora abituale la persona si considera residente in un luogo se fornisce elementi idonei a dimostrare il domicilio nel territorio comunale, cioè l’effettiva presenza. In base all’art. 2 della legge 1228/1954 non si tratta di mero domicilio, inteso come sede principale dei propri affari, previsto dall’art. 43 comma 1 del codice civile, ma di un domicilio accertabile dagli uffici comunali, cioè un’effettiva presenza sul territorio comunale. E ciò non esige necessariamente l’indicazione di un preciso indirizzo in cui rintracciare la persona. Anzi, l’Ufficiale dell’Anagrafe non deve procedere agli accertamenti relativi all’abitualità del domicilio poiché esso è sostanzialmente oggetto di una libera elezione da parte del soggetto (Ministero dell’Interno, Direzione generale dell’amm.ne civile, circolare n.1/1997).

Il domicilio

Il domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi.

L’art. 43 del codice civile va interpretato in modo costituzionalmente e internazionalmente conforme. Dunque la nozione di domicilio va intesa e tutelata in base all’articolo 14 Cost. (il domicilio costituzionale è qualsiasi luogo di privata dimora, può anche trattarsi di un’automobile, v. sentenza n. 88/1987 Corte Costituzionale) e in base all’art. 8 CEDU, che secondo la Corte di Strasburgo designa lo spazio fisico determinato in cui si svolge la vita familiare (Corte di Strasburgo, sentenza Giacomelli c. Italia, 2.11.2006, par. 76).

La legge 94 del 2009, che ha modificato l’articolo 2 comma 3 della legge anagrafica del 1954, prevede inoltre che la persona si considera residente nel comune in cui abbia il domicilio e che però la stessa, al momento della richiesta di iscrizione, è tenuta a fornire all’anagrafe “gli elementi necessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio”.

Nella maggior parte dei casi, il luogo del domicilio e quello della residenza coincidono. Tuttavia residenza e domicilio sono istituti nettamente distinti sotto il profilo giuridico, prevalendo nella residenza la concretezza della dimora protratta nel tempo, e nel domicilio il rilievo giuridico-formale della trattazione degli affari.

Ogni Comune, per il tramite del proprio Ufficio Anagrafe – in qualità di ufficiale del Governo – tiene il Registro delle posizioni dei singoli, delle famiglie e delle convivenze nonché registra le posizioni relative alle persone senza dimora che hanno stabilito nel Comune il proprio domicilio.

Il nostro ordinamento prevede infatti la possibilità per la persona senza dimora di stabilire la residenza nel luogo del proprio domicilio ovvero nel Comune in cui la persona vive di fatto e, in mancanza di questo, nel Comune di nascita (DPR. 223 del 30.05.1989) e/o in una residenza fittizia territorialmente non esistente ma equivalente in valore giuridico (Circolare Istat n. 29/1992).

Queste azioni consentono di rispondere a un duplice obiettivo insito nel nostro ordinamento e nella nostra Costituzione: promuovere il legame di ogni cittadino con il territorio e conoscere effettivamente le caratteristiche della popolazione presente sul nostro territorio nazionale.

La via fittizia in cui fissare la residenza stabilita dalla circolare Istat n.29/1992 consente di fare richiesta dei seguenti documenti:

  • carta di identità;
  • tessera sanitaria;
  • permesso di soggiorno;
  • fine pena;
  • rinnovo permesso di soggiorno.

Dunque, ogni prassi discrezionale da parte degli Uffici Anagrafe che richieda, per l’ottenimento della residenza, la titolarità di un rapporto di lavoro, la disponibilità di un’abitazione, i legami familiari, è di fatto arbitraria e viola la legislazione nazionale.

Gli Uffici Anagrafe devono sapere che non riconoscere la residenza alle persone senza dimora vuol dire:

  • violare il dovere di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost);
  • violare il diritto all’uguaglianza formale e sostanziale (art. 3 Cost);
  • violare il diritto al lavoro (art. 4 Cost);
  • violare la libertà personale e dell’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost);
  • violare la libertà di fissare la propria residenza nel territorio dello Stato (art. 16 Cost);
  • violare il diritto alla difesa (no residenza, no accesso al gratuito patrocinio) (art. 24 Cost);
  • violare il diritto alla salute (art. 32 Cost);
  • violare il diritto all’assistenza e alla previdenza sociale (no residenza, no pensione) (art. 38 Cost);
  • violare il diritto al voto (no residenza, no circoscrizione elettorale) (art. 48 Cost).

*Questa scheda fa parte della guida “ANAGRAFE E DIRITTI: COSA CAMBIA COL DECRETO SALVINI” della serie  Know Your Rights.