Il costo dei droni in vite umane: la sfida per l’accountability

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La Casa Bianca ha recentemente pubblicato i suoi dati ufficiali sulle vittime degli attacchi con i droni. Ma i conti non tornano, stando alle stime delle ONG. E molte informazioni rimangono tutt’ora non divulgate.

 

Le moderne tattiche di guerra e di eliminazione tramite droni da parte degli Stati Uniti sono sempre state avvolte in una preoccupante cappa di segretezza e mancanza di trasparenza.

Nonostante l’amministrazione Obama dichiari di essere “il governo più trasparente di sempre”, il Presidente non è riuscito a fornire dati essenziali e dettagli sulle operazioni con i velivoli senza pilota nel segno di tale trasparenza. È stato soltanto lo scorso 1° luglio, alla vigilia del weekend lungo per le celebrazioni del 4 luglio, che la Casa Bianca ha finalmente pubblicato i dati tanto attesi sul numero di vittime causate dai droni. Da questa relazione lunga tre pagine, che tuttavia mostra solo cifre complessive, emerge che i bombardamenti con i droni da parte della CIA e dell’esercito americano avrebbero ucciso tra i 64 e i 116 civili nel periodo tra il 2009 ed il 2015. La relazione (disponibile qui) elenca un totale di 473 raid e uccisione di un numero tra i 2372 e i 2581 “guerriglieri”.

Foto: Mapbox/Flickr
Foto: Mapbox/Flickr

 

A partire dal 2009, l’amministrazione Obama ha largamente intensificato le operazioni con i droni in territori come Somalia, Pakistan e Yemen, sebbene non ci fosse stata alcuna dichiarazione di guerra ufficiale. Stando ai dati pubblicati dal New York Times all’inizio di quest’anno, il numero dei raid è aumentato dai 50 durante la presidenza di George W. Bush ai circa 506 durante i due governi Obama (secondo la relazione ufficiale, i raid sarebbero 473).

Sebbene i droni siano diventati sempre più essenziali, nonché lo strumento preferito nelle tattiche di guerra moderne degli Stati Uniti, queste cifre andrebbero prese in considerazione esclusivamente per evidenziare l’escalation progressiva dell’utilizzo dei raid con i droni nel corso degli anni.

Disponendo di cifre chiare e precise sul numero dei raid e delle vittime, si apre una battaglia ancora più importante: quella per l’accountability.

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Tabella estratta dalla relazione dell’Ufficio del Direttore della National Intelligence. Sebbene non menzionati esplicitamente, le cifre prodotte dalla Casa Bianca fanno riferimento a Pakistan, Yemen, Somalia e Libia (Afghanistan, Iraq e Siria sono considerate ufficialmente zone di guerra).

 

La divulgazione di informazioni da parte della Casa Bianca sulle operazioni con i droni costituisce certamente un ottimo segnale. Tuttavia, le cifre non rispecchiano quelle pubblicate in precedenza da diverse ONG o emerse da indagini giornalistiche. Ad esempio, il Bureau of Investigative Journalism, con sede a Londra, ha condotto un’indagine (durata diversi anni) sulle operazioni segrete americane con i droni, i cui risultati sarebbero sei volte maggiori rispetto a quelle pubblicate dalla Casa Bianca all’inizio del mese in termini di vittime non combattenti. Secondo il Bureau, i civili rimasti uccisi nei raid con i droni si attesterebbero tra i 380 e i gli 801.

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Anche i dati documentati dalla fondazione New America sarebbero più elevati. Nel loro database si legge che i civili uccisi in Pakistan solo durante i governi Obama sarebbero tra i 129 e i 161. Il Long War Journal invece stima che, nello stesso periodo, almeno 207 civili siano stati uccisi in Pakistan e Yemen.

Tra le vittime, anche l’italiano Giovanni Lo Porto, tenuto in ostaggio da miliziani di Al Qaeda in Pakistan e rimasto ucciso in un attacco drone americano. Lo Porto era stato rapito nel 2012 mentre lavorava a Multan, in Pakistan, per la ONG tedesca Welthungerhilfe. È morto insieme all’americano Warren Weinsten, durante un raid effettuato il 15 gennaio 2015.

In un discorso pronunciato il 23 aprile 2015, Obama ha offerto le sue scuse per l’uccisione di Lo Porto e Weinstein e il premier italiano Matteo Renzi ha ricevuto notizia dell’uccisione di Lo Porto il giorno precedente al discorso di Obama. Nonostante la promessa di una ricostruzione ed analisi totale degli eventi accaduti, ad un anno dalla morte di Giovanni Lo Porto i dettagli emersi sono ben pochi. Il fratello minore di Giovanni Lo Porto, Daniele, ha dichiarato al Guardian di essersi sentito abbandonato sia dalle istituzioni italiane che da quelle americane, in merito alla morte di suo fratello.

 

Un’infografica molto esplicativa prodotta dal Washington Post mostra cifre discordanti tra la recente relazione della Casa Bianca ed altre fonti:

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Jennifer Gibson, l’avvocato che coordina la produzione giornalistica sui droni dell’organizzazione per i diritti umani, ha espresso preoccupazione sull’approssimatività delle cifre pubblicate dalla Casa Bianca. Alla richiesta di un commento sul loro articolo, ha dichiarato: “Le cifre sono inferiori nell’ordine delle centinaia rispetto alle stime più contenute da parte delle organizzazioni indipendenti che hanno tenuto traccia di ogni raid. Inoltre, non è stato fornito alcun contesto per quelle cifre.”

L’amministrazione Obama si è rifiutata di suddividere le cifre nazione per nazione o di fornire dettagli sulle date dei raid in cui si sospetta ci siano state vittime civili. Diventa quindi impossibile verificare le cifre prodotte dal governo raffrontandole con quelle dei gruppi di monitoraggio indipendenti. E diventa ugualmente impossibile per le vittime attribuire la responsabilità degli errori commessi.”

L’organizzazione Reprieve ha pubblicato a sua volta una relazione sui raid con i droni  in cui vengono messe a confronto le dichiarazioni ufficiali sulle vittime civili e le cifre prodotte dalle organizzazioni indipendenti. Il calcolo delle statistiche viene modificato perfino dal modo in cui le vittime dei raid vengono “etichettate”. Di conseguenza, diventa virtualmente impossibile stabilire e determinare l’identità di quei 2372-2581 “guerriglieri” che figurano nella relazione della Casa Bianca, non senza dati più precisi o maggiore chiarezza nel metodo del conteggio delle vittime.

Gibson prosegue:

Ad esempio, abbiamo appreso che, almeno fino al 2012, tutti gli uomini in età adulta e arruolabili presenti in una zona colpita dai raid venivano conteggiati come ‘miliziani’, a meno che non venisse dimostrato altrimenti post mortem.

Inoltre, dalla pubblicazione dei Drone Papers nell’ottobre del 2015, abbiamo appreso che in Afghanistan tutte le vittime venivano classificate come ‘Nemico Ucciso in Azione di Guerra’ a meno che non ci fossero prove ‘definitive’ del contrario. Entrambe queste realtà fanno crescere il sospetto preoccupante che gli Stati Uniti abbiano semplicemente ridefinito i termini della discussione e, in particolare, la definizione di cosa significhi essere un ‘civile’. Le indagini condotte da Reprieve sembrano supportare questa tesi. Abbiamo scoperto che, durante numerosi tentativi di uccisione nei confronti di 41 obiettivi di alto profilo, gli Stati Uniti hanno ucciso più di 1100 persone. In media, ogni obiettivo di alto profilo sarebbe ‘morto’ tre volte, il che sembra rafforzare la tesi secondo cui gli Stati Uniti, con sempre maggior frequenza, non saprebbero chi stanno uccidendo. Le informazioni sono estremamente scarne.

Verso la fine del 2015, Intercept ha pubblicato i “Drone Papers“, un’indagine estremamente approfondita sui raid con i droni partita da una fuga di notizie da parte di un whistleblower (rimasto anonimo) dei servizi di intelligence degli Stati Uniti che ha partecipato alle operazioni con i droni. I “Drone Papers” hanno fornito prove ulteriori del ruolo che la sorveglianza informatica e le intercettazioni elettromagnetiche svolgono nell’identificazione, monitoraggio ed eliminazione degli obiettivi in Yemen ed in Somalia.

Nel 2014, l’ex direttore della NSA e della CIA Michael Hayden ha dichiarato che gli obiettivi dei raid vengono eliminati “sulla base dei metadati”, in riferimento alle operazioni con i droni.

Secondo Jennifer Gibson:

I metadati non forniscono il contesto sufficiente a determinare se qualcuno è un civile o un miliziano, requisito obbligatorio secondo le leggi internazionali. Come abbiamo potuto osservare dai leak di Snowden, qualcuno i cui metadati risultano sospetti a causa delle persone che incontra potrebbe essere semplicemente un giornalista che svolge il suo lavoro.”

In un’intervista al The Nation sul suo ruolo nella gestione delle operazioni con i droni presso la base americana di Ramstein, in Germania, Brandon Bryant, un ex membro dell’Air Force americana, ha dichiarato che l’intero processo di lancio di un bombardamento con i droni viene effettuato “per scaricare la responsabilità, affinché nessuno sia direttamente responsabile per l’accaduto.”

Nonostante il Presidente Obama abbia emesso, insieme alla pubblicazione della relazione ufficiale, un ordine esecutivo finalizzato a stabilire delle linee guida più definite per prevenire ulteriori vittime civili, sarà di fatto impossibile verificare se queste linee guida verranno effettivamente adottate: i cittadini, gli attivisti e i giornalisti avranno bisogno di un processo di trasparenza più forte ed efficace per poter monitorare adeguatamente la situazione.

Gibson conclude affermando che “una trasparenza concreta ed una vera assunzione di responsabilità richiedono molto di più. Non solo la verificabilità delle cifre, ma anche una definizione precisa di chi viene classificato come ‘civile’, il corpus legislativo che governa le autorizzazioni dei raid e procedure definite per poter indagare su eventuali errori. Ed è ancora più importante che le cifre vengano affiancate da dettagli, come ad esempio le date e i luoghi dei raid, affinché le dichiarazioni delle autorità possano essere verificate. Solo allora potremo associare delle facce ai cadaveri e iniziare a dibattere su chi è stato ucciso e se la sua eliminazione ci ha resi più sicuri.”
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Philip Di Salvo è giornalista e ricercatore. Le sue aree di ricerca includono il whistleblowing, la sicurezza digitale nel giornalismo e i rapporti tra hacker e giornalisti. Attualmente sta completando la sua tesi di dottorato presso l’Università della Svizzera Italiana a Lugano, in Svizzera, dove lavora anche come editor per lo European Journalism Observatory. Scrive per l’edizione italiana del settimanale Wired e per altre testate.

 

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Articolo originariamente pubblicato in inglese su Medium; traduzione di Luca Napolitano.
Foto di copertina: Jon Mannion/Flickr Creative Commons
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