Il diritto di migrare
Quanto riflettiamo davvero sul diritto di migrare? Che non è semplicemente quello di uscire dal proprio paese, ma anche il diritto di avere un rifugio o semplicemente di cercarsi una collocazione, un lavoro, una nuova vita, in un paese diverso da quello in cui si è nati. Ci ha riflettuto molto, e bene, Catherine Winthol de Wenden, politologa e docente a SciencePo a Parigi, esperta di migrazioni, che nel suo ultimo libro, “Diritto di migrare” (Ediesse edizioni), ha analizzato con cura, e ben documentato, la portata e le caratteristiche delle odierne migrazioni internazionali. E, soprattutto, come questo diritto a migrare, a muoversi alla ricerca di luoghi e opportunità di vita più dignitose, non sia ancora ugualmente riconosciuto in tutti i posti del mondo. Poiché se c’è un diritto di uscita, non sempre, dall’altra parte, c’è un diritto di entrata.
E in questi giorni più che mai stiamo assistendo a quante differenze ci siano, tra un Paese e l’altro, in questo senso. Nuovi confini dove prima sembrava che non ce ne fossero più, nuovi muri, nuovi appelli alla sovranità nazionale. Scrive l’autrice: «Gli effetti di questo tipo di dissuasione non sono stati realmente dimostrati e il costo finanziario, diplomatico, politico di queste pratiche è continuamente denunciato, senza parlare delle violazioni dei diritti dell’uomo praticate dai paesi alle cui porte si muore (Europa o Stati Uniti)»
Le differenze tra paesi, dicevamo. Perché se da una parte ci sono quelli del Nord del mondo che diventano paladini di questi diritti, molto c’è ancora da fare affinché questo riconoscimento diventi concreto anche in tutti gli altri. Non si tiene mai conto delle migrazioni tra Sud e Sud, ad esempio, o delle migrazioni ambientali, per non parlare del numero crescente di minorenni, che spesso si trovano da soli in un territorio ostile, profughi non accompagnati e senza alcuna tutela. Ce ne sono uno su quattro tra i rifugiati in Europa. Oltre 140 mila i minori, che hanno richiesto asilo tra gennaio e luglio 2015, con una media di circa 20 mila al mese. Perché anche questa è una considerazione da fare: lo status di migrante è cambiato, come quello di rifugiato. Soprattutto se si guarda alla definizione che ne dà la Convenzione di Ginevra del 1951. E l’autrice suggerisce che forse ci sarebbe bisogno di una nuova riflessione, di un ripensamento del diritto internazionale delle migrazioni. Un appello a cui i politici di tutto il mondo, o almeno quelli europei adesso, dovrebbero poter rispondere. «Ancora oggi, il diritto di migrare è uno dei diritti meno equamente distribuiti tra le diverse zone del mondo […] Una delle più grandi ineguaglianze dei nostri giorni consiste, in effetti, nel paese di nascita di ciascuno».
Sullo sfondo c’è sempre la paura, di perdere il controllo del proprio territorio, di dover condividere, di essere invasi. E poco importa se i dati diffusi ogni giorno dimostrino come in realtà il diritto di migrare sia qualcosa che va di pari passo con il diritto di accogliere, e che dal connubio tra i due possano davvero nascere opportunità per tutti. Lo afferma anche Monsignor Giancarlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes: «La protezione umanitaria può costituire un segno di rinascita e di sviluppo, di condivisione e di cooperazione decentrata. Ci sono volti e storie di migranti che, nati in Somalia, in Eritrea, in Nigeria, in Ghana nel Mali, nel Ciad, in Sudan, in Costa d’Avorio, in Bangladesh o in Pakistan o in Afganistan, da anni sono in cammino e chiedono di trovare casa, lavoro, ma soprattutto pace nel nostro Paese e in Europa. Non possiamo negare e ricusare il diritto di migrare a chi sappiamo non potrà rientrare nel proprio Paese, ma che senza un titolo di soggiorno continuerà a vagare irregolarmente in Italia e in Europa, alla ricerca di una sicurezza, ma con il rischio di essere ancora vittima di sfruttamento e di violenze».