Whistleblower: senza le loro informazioni saremmo meno liberi
Il 5 aprile 2010 Wikileaks pubblicava il video Collateral Murder, la prova che nel 2007 il governo USA aveva ucciso civili e due giornalisti Reuters a Baghdad e che, successivamente, aveva mentito sull’attacco.
Era l’inizio della fama mondiale di Wikileaks.
Era anche la fine della libertà del caporale Bradley Manning (oggi Chelsea) che il 27 maggio 2010 venne arrestato con il sospetto – poi divenuto accusa, confessione e condanna a 35 anni di carcere – di essere il whistleblower dietro quello e altri dei maggiori leak pubblicati. Più di 90mila e più documenti riservati sulla guerra in Afghanistan, 400mila e più file sul conflitto in Iraq voluto da Bush, 250mila e più cablo della diplomazia Usa e 779 documenti sui detenuti di Guantanamo.
E di whistleblowing si è parlato lo scorso 18 aprile al Festival del Giornalismo di Perugia, in uno dei panel organizzati da CILD ricordando anche – grazie alla giornalista Alexa O’Brien – che dei cinque anni che Manning ha passato in custodia, tre sono trascorsi in attesa di processo, inclusi molti mesi in isolamento.
Manning non è un caso unico isolato: nonostante le sue rivelazioni non abbiano avuto un impatto sulla sicurezza degli Stati Uniti, lei stessa – e gli altri whistleblower – sono stati accusati di spionaggio, per aver ceduto, attraverso questi leak, informazioni ai “nemici”.
Ancor di più, ha spiegato Ben Wizner (avvocato della American Civil Liberties Union, che difende Edward Snowden): le accuse sono ancora più pesanti perché sostengono che, essendo state pubblicate sui media, e quindi di dominio pubblico, queste informazioni potrebbero, potenzialmente aiutare non un solo nemico, ma tutti i nemici degli Stati Uniti.
Così la preoccupazione per la “sicurezza nazionale” ha scavalcato altri principi quali la libertà di stampa e il diritti dei cittadini di sapere cosa sta facendo il proprio governo.
Come sarebbe il mondo senza i media?
Eppure, è ancora Wizner a chiedere di immaginare mondo senza divulgazione non autorizzata alla stampa.
Senza queste divulgazioni, ha infatti ricordato il direttore della campagna Speech, Privacy e Technology Project dell’Aclu, il mondo non avrebbe saputo come la guerra in Iraq fosse basata su menzogne, né delle torture nel carcere di Abu Grahib e dell’uso del waterboarding negli interrogatori; non saremmo venuti a conoscenza della cattura di presunti terroristi avvenuta in paesi stranieri e la deportazione in carceri come Guantanamo, spesso senza processo, e neanche del programma statunitense su cittadini stranieri da uccidere in altri paesi in circostanze non di guerra. “Non possiamo dire – ha chiosato Ben Wizner – che saremo più liberi e sicuri se il pubblico non avesse avuto accesso a queste informazioni”.
Nonostante tutto, la giustizia statunitense è stata implacabile con Chelsea Manning e con gli altri whistleblower.
Il suo processo, iniziato dopo ben tre anni di prigionia, è stato sottoposto ad una totale censura, ha ricordato Alexa O’Brien, tra le voci più attive nella copertura del processo.
Un processo che, sottolinea O’Brien, “ricorda quanto sia potente l’atto di testimonianza e quanto sia difficile essere saggi collettivamente”, esaltando Manning a figura politica che sfida l’archetipo dell’anima discusso nella filosofia di Platone, perché va più un profondità, creando una sorta di nuovo ordine.
Le rivelazioni pubbliche avrebbero senza dubbio meritato un confronto ben più ampio, un’attenzione diversa da parte nostra, come società, come comunità, poiché il modo in cui trattiamo e scriviamo di questa storia, della storia di Chelsea, non ha un impatto solo su di lei, ma su di noi.
Il whistleblower nella società contemporanea
A evidenziare l’importante figura dei whistleblower nella società contemporanea è Annie Machon, già direttrice della Courage Foundation, che si occupa della difesa dei whistleblower, e che ha appena lanciato l’iniziativa Code Red.
Lei per prima ha fatto parte di questa categoria quando lei e il suo compagno, dopo aver lavorato per i servizi britannici, occupandosi di terrorismo irlandese e internazionale, se ne andarono rivelando ai giornali contenuti segreti. Tra questi: intercettazioni, arresti di persone innocenti, bombe che sarebbero dovute esplodere, nonché un tentativo di assassinare Gheddafi, finanziato dall’intelligenze britannica.
Denunce rese ancora più difficili perché arrivate in un’epoca nella quale internet ancora non c’era. Denunciare significava quindi dover entrare in contatto con dei giornalisti con il rischio di esporsi in prima persona ed essere per questo facilmente intercettati e condannati, oltre alla possibilità che, i giornali stessi, potessero restituire i documenti al governo senza utilizzarli.
Annie e David, il suo compagno, sono stati due whistleblower andati in clandestinità prima di Edward Snowden. Ed è proprio per la loro storia che Annie sottolinea la fondamentale importanza dei giornalisti per proteggere queste persone.
Senza questo “supporto”, infatti, si rischia di essere dimenticati, cosa che comporta un grave pericolo. E se servono i giornalisti, secondo la Machon, servono sempre più whistleblower.
“Ne abbiamo bisogno per documentare i vari orrori che accadono. Dobbiamo dipendere da loro perché non abbiamo altre informazioni, per questo ne abbiamo sempre più bisogno e per questo dobbiamo proteggerli”.
A chiudere gli interventi è stata Antonella Napolitano, communication manager della Cild, che ha sottolineato quando sia difficile, in Italia, anche solo parlarne: paradossalmente la cosa è ancora più complicata dal fatto che non ci sia neanche una parola per definire i whistleblower (di volta in volta vengono chiamati spioni, gole profonde, ecc.)
Non è solo una questione di termini – sottolinea – ma di cultura. Nonostante questo, però, anche nel nostro paese, i whistleblower ci sono. Non diffondono documenti secretati come Manning o Snowden, ma tentano di denunciarem per esempio, la corruzione nella pubblica amministrazione.
Proprio per difendere queste persone esiste un disegno di legge (della deputata M5S Businarolo), depositato in Commissione Giustizia da un anno e mezzo: mira a proteggere whistleblower che vogliano rivelare informazioni che riguardano tanto lo Stato, quanto grandi aziende private. La strada per una discussione e un voto in Parlamento, però, sono ancora lunghe.
Il diritto di sapere, di conoscere, di avere informazioni è un diritto umano, conclude la Napolitano, ed è fondamentale per essere coinvolti nell’assunzione delle decisioni.
Forse non saremo dei whistleblower, non saremo in grado di denunciare corruzione, far emergere segreti di stato, ma dobbiamo sapere di più per poter esercitare il nostro diritto a sapere, essere informati, ed essere coinvolti nelle decisioni.
La foto utilizzata è di Alessandro Migliardi, di ijf15