Anche Marjan Jamali è stata assolta dall’accusa di scafismo
Di Marco Biondi
Dopo l’assoluzione di Maysoon Majidi, anche Marjan Jamali ha avuto giustizia dal Tribunale di Locri ed è finalmente libera.
Jamali era stata arrestata dopo essere sbarcata sulle coste calabresi insieme al figlio di 8 anni, in fuga dalla violenza domestica e dal regime Iraniano. Dopo 217 giorni di carcere e 300 giorni di arresti domiciliari con l’accusa di essere una scafista, è arrivata la sentenza definitiva di assoluzione dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, anche lei arrestata per presunto scafismo dopo essere sbarcata nell’ottobre 2023.
Jamali era fuggita da un marito violento e dal regime degli Ayatollah, in cerca di una nuova vita per lei e per il figlio di otto anni, ma tre uomini presenti nell’imbarcazione, denunciati dalla stessa Jamali per tentativi di violenza sessuale e poi scomparsi, l’avevano indicata come “colei che aveva preso i cellulari delle persone a bordo” .
Nè Majidi nè Jamali avrebbero mai dovuto vivere sulla propria pelle questo tipo di criminalizzazione, solo per aver cercato una vita lontano dall’oppressione in Iran. La loro storia somiglia a quella di molte altre persone detenute o condannate per accuse simili, a causa di politiche che criminalizzano le persone in movimento e trasformano le persone sopravvissute a viaggi disumani in colpevoli.
Non possiamo dimenticare Amir Babai, un uomo che si trovava nella stessa barca di Jamali, che invece è stato condannato a 6 anni e al pagamento di una multa di un milione e mezzo di euro per favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Come scrive Silvio Messinetti sul Manifesto, la loro posizione processuale emersa nel dibattimento era identica: “il processo a Marjan e Amir non è stato solo un caso giudiziario, ma un atto politico. È il prodotto di un sistema che agisce contro le persone in movimento, con arresti immediati e un uso distorto delle testimonianze rilasciate nei momenti di massima vulnerabilità”.
Come riporta Simone Gavozzi su Domani, l’accusa si basava unicamente sulle parole di tre uomini, senza alcuna prova concreta. Al contrario, più testimoni hanno dichiarato che Marjan non aveva alcun ruolo nella gestione dell’imbarcazione e che, anzi, aveva cercato di proteggere altre persone dalla violenza degli stessi uomini che l’accusavano. Durante le udienze, il suo avvocato Giancarlo Liberati ha presentato anche la ricevuta del pagamento effettuato dalla famiglia di Marjan a un’agenzia turca per il viaggio verso l’Europa. Un documento che dimostrava chiaramente che la giovane madre era una passeggera e non una trafficante di esseri umani”.
Anche la testimonianza di Faruk, l’uomo egiziano che ha confessato di essere colui alla guida dell’imbarcazione, prova che Jamali e Babaii fossero semplici passeggeri, senza alcun ruolo nell’organizzazione del viaggio. “Una testimonianza rafforzata dalle dichiarazioni di una coppia rintracciata in Germania, che ha viaggiato con Marjan e il figlio fin dalla Turchia. Ma soprattutto la documentazione acquisita e le ricostruzioni fornite dalla difesa hanno mostrato come l’intero impianto accusatorio fosse basato su elementi labili e mal interpretati, tra cui la presenza di Marjan e Amir in un gruppo Telegram usato dai trafficanti. Il legale di Babai, Carlo Bolognini, ha annunciato che presenterà appello, continua il Manifesto.
All’esterno del tribunale, riporta Domani, un gruppo di attivisti dell’associazione “Tre Dita” ha manifestato denunciando la criminalizzazione dei rifugiati politici: “i rifugiati non sono criminali, siamo tutti e tutte scafiste”. A guidare la protesta, Maysoon Majidi, presidente dell’associazione e attivista Kurda, impegnata nella lotta contro l’Articolo 12 del Testo Unico sull’immigrazione. Durante il sit-in, ha dichiarato: “I rifugiati non sono criminali. Il termine scafista è una parola vuota di significato. I trafficanti di esseri umani non salgono mai a bordo delle imbarcazioni e non mettono in pericolo la propria vita. Le persone che viaggiano in mare sono rifugiate, costretti ad affrontare questa rotta a causa di minacce alla propria vita nei loro paesi”.
La criminalizzazione delle persone in movimento mostra quanto sia urgente rivedere le politiche che trasformano la migrazione in reato e le persone che fuggono da violenze, guerre o repressioni in colpevoli. Come spiegato da Amnesty, “la legge italiana non si allinea alla definizione internazionale di “traffico di esseri umani” così come presente nel Protocollo delle Nazioni Unite adottato nel 2000 e ratificato dall’Italia, in cui “il traffico di migranti” viene definito come “il procurare – al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale – l’ingresso irregolare di una persona in uno Stato di cui la persona non è cittadina o residente permanente” (articolo 3). Secondo il Protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, dunque, perché una condotta possa essere considerata traffico di esseri umani e possa quindi essere soggetta a criminalizzazione, deve esserci l’intenzione “di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o materiale di altro genere” (articolo 6).
Come CILD continuiamo a sollecitare l’urgente necessità di modificare l’art. 12 del Testo unico sull’immigrazione perché continua a criminalizzare, imprigionare e punire le persone invece di tutelarle. Inoltre, il cd. “decreto Cutro” ha aumentato in maniera sproporzionata le pene per i presunti scafisti, introducendo nel codice penale fino a 30 anni di carcere per il reato di morte o lesioni provocate da chi organizza la tratta delle persone migranti, sanzioni che di fatto colpiscono, come abbiamo visto, anche persone che nulla hanno a che fare con i traffici criminali.
Queste storie non sono un caso isolato, come racconta il report “Dal mare al carcere” di Arci Porco Rosso e Alarm Phone. Un altro esempio è quello di Alaa Abdelkarim, un giovane calciatore libico che nel 2017 è stato condannato a trent’anni insieme ad altri quattro compagni perché ritenuto membro dell’equipaggio del barcone su cui nel 2015 sono morti 49 migranti, come riportato da La Via Libera.
Lo scorso 13 giugno, la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di revisione del processo, ma i legali promettono di continuare a lottare.