Dal Cpr al Carcere. L’assurda vicenda di Hamid Badoui

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Di Irene Proietto e Arianna Egle Ventre

Dal centro di permanenza di Bari a quello di Gjader in Albania, fino al carcere di Torino. Un percorso forzato per l’Italia e oltre, che ha portato Hamid Badoui a togliersi la vita lunedì 19 maggio nel carcere torinese Lorusso e Cotugno, dopo quindici anni trascorsi in Italia.

Un’altra morte di una persona sotto custodia dello Stato, un altro suicidio. Una cosiddetta ‘morte violenta’, laddove quell’aggettivo ‘violenta’, che è funzionale a descrivere le modalità del decesso, contiene molto di più: descrive la violenza istituzionale e strutturale subita da Hamid. 

La sua vicenda racconta della linea di continuità che unisce carcere e Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR). Due luoghi molto diversi ma accomunati dal carattere punitivo, oltre che dal razzismo strutturale che ha fatto sì che una persona di origine straniera come Hamid, nonostante vivesse da anni in Italia, non abbia avuto modo di rinnovare il permesso di soggiorno e dal carcere passare direttamente in un CPR. Infatti dopo aver scontato la pena per piccoli reati al carcere di Torino, qualche mese fa Hamid è stato trasferito direttamente nel CPR di Bari, essendo privo di documenti. Lì trascorre tre mesi, per poi essere trasferito nel CPR di Gjader in Albania e lì rimane per un mese. Poco dopo essere rilasciato dal centro albanese, viene arrestato nuovamente e portato nel carcere di Torino, dove si toglie la vita.

All’esperienza delle carceri italiane, che secondo il recente rapporto di Antigone presentano una media del 133% di sovraffollamento, si aggiunge il trattenimento nei CPR, inevitabilmente traumatico viste le costanti violazioni dei diritti intrinseche al sistema della detenzione amministrativa e abbondantemente denunciate da CILD e altre organizzazioni della società civile, oltre che da inchieste giornalistiche. 

Una storia fatta di trattenimenti, detenzioni, limitazione della libertà personale e di conseguenza di annullamento di qualsiasi prospettiva futura. Il trasferimento nel CPR in Albania porta Hamid all’apice del suo isolamento dalla società e dai suoi familiari, residenti in Italia. Il Manifesto riporta le parole dell’europarlamentare Cecilia Strada, che commenta che Hamid «aveva paura di non poter accudire la madre malata di cuore e temeva di essere rispedito in Albania senza poterle essere di aiuto. Si lamentava, perché almeno in carcere poteva chiamare la famiglia, ma da lì no

Non sembrano importare i legami di Hamid, né il suo passato ma soprattutto la possibilità di immaginarsi, sperare, costruire. D’altronde è un sistema intrecciato, impregnato nella stessa logica securitaria e punitiva. Un sistema fatto di molteplici filtri, atti a selezionare, categorizzare il bene e il male, il vero e il falso, l’utile o l’inutile. Una produzione costante di categorie che va di pari passo alla produzione sistemica di marginalità. Dall’impossibilitá di ottenere visti per passaggi sicuri, alle frontiere che selezionano chi vive e chi no. Dalle procedure di frontiera atte a stabilire chi è rischio o chi meno; quale corpo dice il vero, quale il falso, fino al sistema d’accoglienza che accompagna o lascia indietro. Da una burocrazia labirintica che esclude, seleziona e intrappola nel senso di colpa fino all’irregolarità imposta e punita. Così il passaggio da una struttura penale a strutture di detenzione amministrativa viene fatto apparire quasi, tristemente, logico. 

Hamid si è trovato incastrato in questo groviglio, dove il passato sembra limitarsi a una ‘colpa’ dell’irregolarità (in qualche modo considerata come meritata) mentre la possibilità di immaginarsi un futuro, semplicemente, non è contemplata. In questo groviglio, togliersi la vita, sottrarre il proprio corpo da dei luoghi che risucchiano e puniscono,  è un’azione tutt’altro che passiva, una scelta-non scelta forzata che ci chiede di essere ascoltata.