Arbitrarietà e repressione: la detenzione femminile nel CPR di Roma
di Irene Proietto e Arianna Egle Ventre
Sara (nome di fantasia) è già stata tre volte nel CPR (Centro di permanenza per il rimpatrio) romano di Ponte Galeria, ma il conto potrebbe ancora aumentare. Nonostante sia già stata considerata inespellibile e il suo ultimo trattenimento non sia stato convalidato, Sara sembra incastrata in un labirinto detentivo, per cui corre quotidianamente il rischio di essere portata in un centro per il rimpatrio.
«C’è una dimensione di ‘spettacolo’ molto importante nel sistema CPR che è in gioco anche nella sezione femminile. È il ruolo principale di questi luoghi in cui tante persone che vi transitano di fatto non vengono rimpatriate, ma detenute e poi rilasciate rimanendo illegalizzate e senza diritti sul territorio» spiega Francesca Esposito, ricercatrice che ha partecipato anche all’ultima delegazione di CILD nella visita ispettiva dell’ottobre 2024 presso il centro di Ponte Galeria. Esposito dal 2014 al 2020 ha svolto attività di ricerca nel CPR, soprattutto nella sezione femminile, dove ha anche negli anni affiancato lo sportello della cooperativa BeFree.
In Italia solo due CPR hanno avuto una sezione femminile: da quando nel 2015 quella del CPR di Torino è stata chiusa, Ponte Galeria è oggi l’unico centro destinato anche al trattenimento delle donne, con una sezione dedicata fin dalla sua costituzione come CPTA (Centro di Permanenza Temporanea e Assistenza) nel 1998. Nel corso degli anni ha visto molte variazioni in termini di numeri fino ad una drastica riduzione nel 2021 arrivando all’attuale capienza regolamentare di cinque posti. Oltre a una diminuzione significativa di posti destinati alla detenzione delle donne, la pandemia ha portato con sé una forte limitazione, poi rimasta, nell’accesso delle associazioni all’interno del CPR. È il caso anche della cooperativa BeFree, che può attualmente entrare solo su segnalazione per svolgere colloqui antitratta con donne con esperienza di violenza e sfruttamento.
Tra gennaio e luglio 2024 sono state trattenute 50 persone nella sezione femminile (su 675 totali), 13 delle quali richiedenti asilo. Ventisette di loro, quindi più della metà, si sono viste non convalidato il trattenimento da parte dell’autorità giudiziaria, confermando la violenza insita in quei cinque posti, su scala nazionale, destinati alla detenzione femminile
«La detenzione come spettacolo ha due obiettivi» spiega Esposito e continua: «Viene utilizzata da una parte come elemento di deterrenza e monito alle comunità migranti del costante rischio di essere detenute e deportate». Dall’altro lato, secondo la ricercatrice, l’altro riflesso del carattere spettacolare della detenzione sarebbe l’affermazione di sovranità, per cui lo Stato dimostrerebbe la sua capacità di proteggere e garantire sicurezza a cittadini e cittadine in funzione populista.
Una minaccia costante dunque, che si riflette sulla quotidianità di Sara. I continui trattenimenti e anche la sola minaccia di essi, rendono la sua vita intermittente e sospesa nell’impossibilità di seguire un percorso continuativo di regolarizzazione.
Nata e cresciuta a Roma Sara compie 18 anni nel 2021, racconta Eva Tennina di Progetto Diritti, l’associazione che, insieme all’avv. Tardella, la sta accompagnando in un percorso di regolarizzazione. La sua famiglia è rom di origine bosniaca, ma lei non ha alcun legame con la Bosnia. Non parla la lingua. Non ha parenti lì. La prima volta rimane detenuta un mese e un mese durerà anche nel secondo periodo di detenzione, sempre nel CPR di Ponte Galeria. Solo il terzo è rapidissimo. Si collega da remoto all’udienza che decide la non convalida del suo trattenimento. Sara è considerata inespellibile ed esce tre giorni dopo il suo arrivo. Seppur breve è comunque un ostacolo, una parentesi troppo ingombrante che la definisce come indesiderabile e non voluta dal Paese in cui è nata.
«Le persone rom vengono frequentemente trattenute nel CPR: la detenzione è utilizzata come strumento punitivo verso un gruppo che sappiamo essere particolarmente oggetto di razzismo strutturale, istituzionalizzato» commenta Esposito.
Nel CPR di Ponte Galeria l’estetica del luogo racconta la sua funzione anche se con le parole di Esposito «le funzioni della detenzione sono varie e variegate». I vecchi graffiti che c’erano non ci sono più, come le associazioni che fino al 2020 riuscivano a entrare nella struttura. Erbacce ovunque. L’abbandono è una scelta di isolamento forzato di cinque persone che incarnano il monito della costante possibilità di espulsione.
Secondo Esposito «La detenzione è lo strumento di un sistema plastico. Viene nel tempo adattato a seconda dell’interesse politico del momento che può variare le sue priorità»
È il caso del luglio 2015 quando i punti di sbarco sono sotto il mirino della politica. Un gruppo di 66 donne nigeriane sopravvissute alla tratta vengono condotte illegittimamente all’interno dell’allora CIE (Centri di identificazione ed espulsione) di Ponte Galeria immediatamente dopo l’approdo sulle coste siciliane. Alcune riescono ad evitare la deportazione grazie a un intervento congiunto di avvocati della Clinica Legale di Roma Tre, attiviste e operatrici della Cooperativa “BeFree”. Ma circa una ventina vengono rimpatriate. Segue alla vicenda una condanna dal GRETA (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings) per la presenza di chiari indicatori che rivelano la storia di sfruttamento.
«Ci sono stati altri periodi invece in cui c’era una presenza maggiore di persone fermate non tanto allo sbarco quanto più nel territorio in maniera discrezionale. Era chiara la volontà di rafforzare la repressione e i controlli sulle strade nei confronti di lavoratrici sessuali» racconta Esposito, che ricorda in particolare la storia di una ragazza, emblematica della violenza del trattenimento. «Lavorava in strada, era stata massacrata: aveva la faccia gonfia e segni di violenza». Portata al pronto soccorso, il personale sanitario aveva avvisato la polizia per l’evidente situazione di violenza. La risposta delle autorità è sorprendente, ma al tempo stesso prevedibile. Appena dimessa dopo neanche 48 ore, la ragazza viene portata nel CPR di Ponte Galeria senza ricevere le cure essenziali. È solo uno dei casi emersi in cui alla denuncia di una violenza subita da una donna consegue l’immediato trattenimento.
Insieme ai numeri, negli anni sono cambiate le storie e le persone che hanno attraversato il centro di Ponte Galeria. Ma un filo rosso unisce l’esperienza delle donne che hanno vissuto il trattenimento poiché secondo le ricerche di Esposito «In tutti i Paesi in cui ho lavorato sul tema, c’è sempre un fil rouge di violenza: il sistema della detenzione agisce una violenza razzista e genderizzata che riproduce i meccanismi di violenza vissuta all’esterno dei centri». Una concatenazione che emerge anche dalle visite ispettive effettuate nel 2024 dalle delegazioni di CILD. A partire dall’irregolarità alla quale molte donne sono condannate e dalla marginalità che ne deriva, il CPR incarna una forma di violenza istituzionale patogena, con conseguenze gravissime sulla sulla salute mentale delle trattenute. Come nel caso di C.F., per lə quale riottenere la libertà è stato possibile solo in seguito a un ricorso d’urgenza alla Corte Europea dei Diritti Umani.
C.F. proveniva dalla Romania, ma è stato possibile scoprirlo solo in seguito alla sua liberazione e al conseguente miglioramento delle sue condizioni di salute mentale. Durante il suo ricovero al San Camillo di Roma è emerso un doloroso vissuto di violenze che l’hanno portatə a vivere in strada a Catania, e da lì a finire nel buco nero del CPR di Roma a novembre del 2023. La detenzione di C.F. è un incubo prorogato per ben nove mesi dall’autorità giudiziaria: la sua condizione di estrema vulnerabilità psichiatrica, segnalata anche dalla psicologa del Centro, avrebbero dovuto portare la ASL e il Giudice di Pace a dichiarare l’evidente incompatibilità con la vita in comunità ristretta, ma ciò non è avvenuto fino a quando a luglio 2024 la Corte EDU ha ordinato al Governo italiano di liberarlə e di predisporre adeguate cure. Secondo le autorità infatti C.F. sarebbe statə maggiormente al sicuro in isolamento in gabbia all’interno del CPR.
C.F. incarna l’ambiguità della categoria di vulnerabilità, applicata in maniera differenziale dallo Stato e dalle autorità. Come spiega nel dettaglio Esposito storicamente vengono utilizzate categorie essenzializzate dal carattere coloniale. Da un lato vi è la mascolinità razzializzata che è percepita come un pericolo e associata a criminalità e violenza, dall’altro una femminilità vulnerabile, incastrata nella categoria della vittima. «Tuttavia nella narrazione comune viene istituita una gerarchia di innocenza che si applica anche alle donne per cui la sex worker, la donna rom o la donna uscita dal carcere alla fine non sono considerate così tanto innocenti e vulnerabili» commenta la ricercatrice e aggiunge che «questo permette di costruire consenso e legittimità attorno al sistema CPR». Non a caso i centri di detenzione per il rimpatrio detengono fin dalla loro nascita per la maggior parte uomini, in una logica strettamente binaria. Per la stesso logica binaria e cis-eteronormativa le soggettività dissidenti, queer, trans e nonbinarie non vengono riconosciute, neanche a livello di statistiche: in altre parole lo stato cancella violentemente la loro esistenza.
La sezione femminile del CPR di Ponte Galeria, con tutte le sua variazioni negli anni, dimostra l’utilizzo strumentale del concetto di vulnerabilità, adattato a seconda delle esigenze e dalla funzione assunta di volta in volta dalla detenzione amministrativa. Dal caso di C.F, alle numerose collaboratrici domestiche, sopravvissute alla tratta, donne nate e/o cresciute in italia, il CPR agisce come strumento di repressione dai criteri poco chiari e discrezionali. Concepita come ‘discarica sociale’ capace di raccogliere – e nascondere – la marginalità, come struttura dal carattere manicomiale o meccanismo puramente punitivo: la sezione femminile racconta in una distesa di cemento e abbandono l’interazione di queste molteplici funzioni. L’arbitrarietà della detenzione amministrativa al servizio di una logica razzista, patriarcale e classista dà significato alla sua esistenza. Inoltre «fa parte di un sistema più ampio di controllo della mobilità il cui fine più che espellere è illegalizzare le persone razzializzate come straniere e mantenerle così in una condizione di subalternità e sfruttabilità, funzionali al sistema di capitalismo razziale in cui viviamo» commenta Esposito.
«La battaglia per l’abolizione della detenzione femminile in italia è molto importante , se contestualizzata nell’ambito di una battaglia più ampia di abolizione della detenzione per tutt3: può essere una porta di entrata strategica per ridurre la capacità del sistema, la sua portata e la sua forza» conclude Esposito «è una tappa di un processo di smantellamento che inevitabilmente deve riguardare tutto il sistema CPR».
Foto copertina via Welfare/Creative Commons