Accordi e deportazioni sulla pelle delle persone migranti

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di Oiza Q. Obasuyi

Il Memorandum Italia-Albania per la costruzione di centri di detenzione per persone migranti e l’elaborazione delle procedure di asilo al di fuori dei confini nazionali ha ottenuto il via libera sia dalla Camera dei Deputati italiana che dalla Corte Costituzionale Albanese. Ancora una volta si decide di “risolvere” la questione migratoria attraverso metodi coercitivi che sollevano dubbi e perplessità dal punto di vista giuridico, in particolare per quanto concerne i diritti fondamentali delle persone destinatarie di tale provvedimento. Per comprendere come si è arrivati a questo punto, ripercorriamo i punti salienti dello sviluppo di questo accordo.

Il testo del Memorandum e la decisione della Corte Costituzionale Albanese

Nel mese di novembre 2023, il governo Meloni firma un protocollo con l’Albania che prevede la costruzione di due Centri: uno di “accoglienza” o hotspot (per le procedure di screening e asilo) e uno per il rimpatrio (Cpr), in particolare nelle aree del porto di Shengjin e l’area di Gjader.

Tra i punti salienti, il protocollo (che ha durata di cinque anni ed è rinnovabile) prevede: che l’Albania riconosca all’Italia il diritto all’utilizzo delle aree per la costruzione dei centri, concesse a titolo gratuito; che vengano ospitate fino a 3mila persone migranti (soccorse da navi militari italiane in acque internazionali) prive di documenti; che i Centri siano sotto la piena giurisdizione italiana (comprese le spese per gestione e personale, di polizia e non); che l’Albania si occupi della sorveglianza e della sicurezza del perimetro esterno delle strutture; che le spese di alloggio, vitto, cure mediche e ulteriori servizi rivolti alle persone migranti detenute siano completamente a carico dell’Italia. Per quanto concerne i costi: entro i 90 giorni dall’entrata in vigore del protocollo l’Italia dovrà versare all’Albania 16 milioni e mezzo di euro a titolo forfettario. E ancora: “480 milioni per i successivi quattro anni. A cui devono aggiungersi altri 40 milioni per la realizzazione delle strutture (l’hotspot a Shengjin e il centro per i rimpatri a Gjader nell’interno), 8,5 milioni per le strumentazioni tecnologiche e altri 30 milioni di oneri vari […]”, riporta la giornalista Alessandra Ziniti su Repubblica.

Un progetto inutilmente costoso quindi, se si considera che, da un punto di vista meramente strategico, sarebbe molto meno oneroso per l’Italia garantire invece che le procedure di asilo ed eventualmente di rimpatrio vengano effettuate nel territorio – questione che, come vedremo più avanti, viene sancita dallo stesso diritto Ue. Inoltre, dato che l’attuazione del protocollo prevede, di fatto, l’utilizzo del territorio di un altro paese, l’opposizione del governo del presidente Edi Rama, aveva inizialmente presentato ricorso alla Corte Costituzionale Albanese proprio sulla base della potenziale violazione di sovranità statale delle convenzioni internazionali. Per questa ragione, la Corte Costituzionale aveva quindi sospeso la ratifica  del protocollo per analizzare i ricorsi e verificare la validità dell’accordo. Ad ogni modo, la Corte Costituzionale Albanese (composta da 9 giudici) ha di recente dato il via libera a quest’ultimo (con 5 voti a favore e 4 contrari): in particolare, il Presidente della Corte, Holta Zacaj, ha motivato la decisione spiegando che “il Protocollo sulla migrazione non stabilisce confini territoriali né modifica l’integrità territoriale della Repubblica d’Albania, quindi non costituisce un accordo che ha a che fare con il territorio sotto l’aspetto fisico”. 

I punti critici del protocollo

Poco prima della decisione della Corte, la Camera ha approvato il ddl sul protocollo da parte della Camera, che ora passerà al Senato, con 155 voti a favore e 115 contrari. La maggioranza ha inoltre rigettato gli emendamenti delle opposizioni, tra i quali il fatto che venisse messo per iscritto che non ci sarebbe stata alcuna deportazione in Albania per le persone migranti vulnerabili per cui mancano quindi delle garanzie. Con “vulnerabili” si intende, ad esempio, persone migranti con disabilità evidenti, anziane e minori, tuttavia queste ultime non sono le uniche fattispecie entro cui rientrano tutte le persone migranti potenzialmente vulnerabili. 

Come osserva il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), commentando la decisione della Camera, anche se nella seduta in parlamento il Viceministro Cirielli “ha affermato che a bordo della nave verrà effettuato uno “screening preventivo” [per individuare le persone vulnerabili]”, quest’ultimo “permetterebbe di identificare [solo] le vulnerabilità più visibili […] mentre non consentirebbe l’identificazione di tutta una serie di vulnerabilità importanti ma meno visibili (persone vittime di violenza psicologica, fisica, sessuale). Il rischio più che concreto è che queste persone verrebbero portate in Albania”. Inoltre, aggiunge il Cir, uno dei rischi maggiori è il fatto che queste persone verrebbero portate in Albania, con la possibilità di tornare in Italia, solo una volta dimostrato il proprio status di vulnerabilità sempre nel contesto dei centri di detenzione in Albania e ci sono dubbi e perplessità sul fatto che vengano impiegate le figure professionali adeguate per condurre una tale valutazione. “Senza contare”, continua il Cir “che le persone verrebbero sottoposte ad un regime di triplice stress: il non riconoscimento della loro situazione personale a bordo della nave, il viaggio verso l’Albania e la nuova procedura di screening a cui saranno sottoposte e il potenziale ritorno in Italia una volta riconosciuto il loro status. Uno scenario che non tutela in alcun modo le persone migranti vulnerabili, che avrebbero bisogno di tutele specifiche” – procedure che, tra l’altro, sono previste dal vademecum pubblicato dallo stesso Ministero dell’Interno.

Vi sono ulteriori punti critici nel Memorandum, a partire dal fatto che ci troviamo di fronte a un’extraterritorialità delle procedure di asilo e rimpatrio che, come ha sottolineato l’Ecre (Il Consiglio Europeo per i Rifugiati e gli Esiliati) non è consentito dal diritto dell’Ue. Tuttavia, proprio perché nel protocollo si specifica che i salvataggi verranno effettuati in acque internazionali, il governo è riuscito a “raggirare” gli obblighi internazionali ed europei in materia. Infatti, come ha spiegato la giurista Vitalba Azzollini su Domani: “se le persone migranti fossero salvate nelle acque territoriali di uno stato dell’Ue, sarebbe applicabile il diritto europeo in materia di asilo: entrando nel territorio di uno stato membro, essi farebbero ingresso in Ue e vigerebbe il diritto dell’Ue. Ma il diritto europeo non potrebbe applicarsi in uno stato terzo, quindi l’Italia non potrebbe portarli in Albania”. Ciò detto, nonostante il via libera al protocollo, ricordiamo che la giurisprudenza potrebbe comunque avere un ruolo cruciale: basti ricordare il caso Hirsi Jamaa c. Italia, in cui la Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), nella sentenza del 2012, ha condannato l’Italia per aver violato il principio di non respingimento sulla base del fatto che le navi militari con cui sono state respinte le persone soccorse rappresentavano di fatto territorio italiano. Mentre le persone migranti avrebbero quindi il diritto di fare richiesta di asilo sulle stesse navi italiane su cui, in quanto territorio italiano, vale il diritto dell’Ue in materia di asilo, quest’ultimo non è tuttavia applicabile in Albania in quanto non facente parte dell’Ue.

Repressione e diritti negati

Ancora una volta ci troviamo di fronte a un approccio del tutto emergenziale e repressivo nei confronti delle persone migranti, trattate come pacchi da smistare o fardelli di cui liberarsi senza tener conto della tutela dei diritti fondamentali. Sarebbe anche necessario sottolineare che la tendenza di stipulare accordi con Paesi terzi per il contrasto alle migrazioni è ormai una tendenza comune a diversi Paesi europei, basti pensare al Regno Unito e il piano di deportazione stipulato con il Ruanda.

Inoltre, è l’Ue stessa che con il nuovo Patto sull’Immigrazione si arrocca su una torre securitaria che con le procedure di screening, come spiega la ong Picum, estenderebbe l’applicazione di questi controlli non solo alle persone fermate alle frontiere, ma a tutte coloro che non possono dimostrare di essere entrate nel territorio degli Stati membri con un documento di viaggio valido. Ciò significa che la polizia o altri funzionari sarebbero in grado di fermare le persone per strada e portarle nei luoghi designati, per poi essere detenute mentre vengono sottoposte a controlli di sicurezza e identità, per stabilire se possono presentare domanda di asilo. A ciò si aggiunge la sempre più presente e illegale pratica di profilazione razziale (per cui le forze dell’ordine fanno affidamento unicamente su caratteristiche etniche o religiose nelle loro operazioni) e di privazione della libertà personale (con detenzioni arbitrarie, anche di famiglie con minori, trattenimento nelle zone di frontiera anche oltre le 12 settimane per chi vede rifiutata la domanda di protezione in attesa del rimpatrio).

Conoscendo le terribili condizioni in cui riversano i Cpr e gli hotspot italiani – tra repressioni violente delle forze dell’ordine, somministrazione di cibo scaduto, assistenza sanitaria e legale assenti, in un contesto di privatizzazione e profitto da parte delle aziende che gestiscono i Centri -, non ci si aspetta nulla di diverso dai Centri che si pianifica di costruire in Albania, in barba al rispetto dei diritti fondamentali delle persone deportate e detenute.

 

Foto copertina via Twitter/SvejaPodcast