LasciateCIEntrare ci racconta l’orrore nei CPR italiani
In collaborazione con LasciateCIEntrare
1. Sono passati più di dieci anni dalla nascita della rete LasciateCIEntrate, potete raccontarci la genesi di questa importante realtà? In particolare come e perché è nata?
La Campagna LasciateCIEntrare nasce nel luglio 2011 a seguito della Circolare Maroni del 1 Aprile 2011 che bloccava l’accesso alla stampa nei centri di detenzione amministrativa. Si riunirono centinaia di soggetti diversi e associazioni per denunciare questo fatto gravissimo.
L’azione: rappresentata da accessi con parlamentari, giornalisti e avvocati a raffica in tutta Italia per denunciare le condizioni dei centri, fu tanto forte da determinare la revoca del provvedimento. Due giornalisti (Raffaella Cosentino e Stefano Liberti) denunciarono al tribunale amministrativo la circolare, ottenendone l’illegittimità. LasciateCIEntrare per oltre dieci anni ha continuato ad accedere con richieste di autorizzazione di folte delegazioni della società civile composta da persone solidali di varia estrazione, producendo rapporti e denunce finalizzate non solo alla visibilizzazione di quanto accadeva all’interno, ma chiedendo la chiusura definitiva di questi luoghi e sostenendo le azioni legali contro di essi (come ad esempio quella della class action procedimentale di Bari e altre). Dal 2018 la Campagna è continuamente impedita nell’accesso sia a seguito di richiesta di autorizzazioni che con parlamentari.
LasciateCIEntrare è rimasta una rete senza mai voler formalizzarsi come associazione. Continua a mantenere contatti quotidiani con le persone recluse e le loro famiglie e comunità.
2. A vostro avviso, come si è modificata la detenzione amministrativa dei e delle migranti dal 1998 ad oggi? Come possiamo leggere il moltiplicarsi, negli ultimi anni, delle forme di trattenimento (hotspot, navi quarantena, c.d. “locali idonei”)?
Le condizioni non sono migliorate e si continua a nascondere quanto vi accade. Lo dimostrano i report delle realtà che vi hanno avuto accesso sin dalla fine degli anni Novanta.
Vari interventi normativi nel corso degli anni hanno cercato di regolamentare questa tipologia di privazione della libertà, ma resta comunque l’illegittimità di fondo sulla sua stessa esistenza e anche la profonda ingiustizia da cui nasce.
La presenza dei centri per il rimpatrio, come degli altri luoghi in cui è possibile trattenere i migranti, è diretta espressione delle sempre più aggressive politiche migratorie di un’Europa chiusa in sé stessa, ma unita nel controllo dei confini e nel respingere, anche con violenza, gli “indesiderati”.
3. Inizialmente i CPTA erano gestiti dalla Croce Rossa Italiana e la società civile più attenta, già allora, criticava tale scelta sottolineando come “l’umanitario” finisse per normalizzare queste pratiche di trattenimento, divenendone complice. A partire dall’inizio degli anni 2000, per ragioni prettamente economiche, la CRI cominciò a non vincere più le gare d’appalto dei Centri che passarono alle più competitive cooperative e successivamente a vere e proprie multinazionali che -in tutta Europa- gestiscono centri di accoglienza e di trattenimento. Quali sono, a vostro avviso, le conseguenze di una gestione privatizzata dei CPR? Che tipo di business si è venuto, progressivamente, a creare?
Una delle caratteristiche dei centri per il rimpatrio è di essere ermetici allo sguardo esterno e questo, insieme alla loro scarsa regolamentazione, favorisce la massima discrezionalità nel loro funzionamento. I CPR sono parte integrante dei nostri territori, la loro esistenza ha un forte impatto politico e sociale, ma non ce ne rendiamo conto. L’esperienza di reclusione in questi centri ha un forte impatto soprattutto su chi la subisce. Sono centri di produzione di persone ferite nel corpo, nell’anima e nella mente.
Le Prefetture attribuiscono la gestione dei CPR attraverso gare di appalto, il cui criterio di aggiudicazione è quello dell’offerta più vantaggiosa, e puntualmente alcune ditte sono escluse perché, per massimizzare il profitto, presentano offerte eccessivamente basse.
La gestione privatizzata dei CPR non fa che aggravare le condizioni di vita in questi luoghi di privazione della libertà. Questo non significa che se fossero gestiti direttamente dal pubblico sarebbero dei posti dignitosi. Ovviamente chi partecipa ai bandi di gestione non lo fa per una missione di solidarietà nei confronti degli stranieri che vi sonno detenuti, ma semplicemente perché è un’occasione di guadagno, e questo non ci deve stupire. Così come non deve stupire che per aumentare i profitti vengano tagliati i costi dei servizi alla persona o del personale impiegato. Personale che già secondo le tabelle tecniche dei capitolati di appalto è enormemente insufficiente.
Non possiamo indicare un solo CPR in cui la gestione rispetta la vita e la dignità dei reclusi, perché sono ideati come luoghi “fuori dal diritto”. Poi, si aggiunge il fatto che si possono gestire questi centri in modo più o meno criminoso. Se si dà uno sguardo ai bandi di gara delle Prefetture per la gestione dei CPR si può notare che partecipano più o meno gli stessi grandi operatori economici (Ors, Engel/Martinina, Badia Grande, Edeco/Ekene, ecc.), più qualche incursione di cooperative locali. A volte cambiano nome nel corso di uno stesso affidamento, come il caso di Edeco che diventa Ekene, oppure Engel Italia che diventa Martinina. E per essere esclusi non pare sufficiente essere stati oggetto di indagini per il modo in cui, in precedenza, sono stati gestiti fondi pubblici. Con una recente eccezione che riguarda Badia Grande, esclusa dai bandi per l’affidamento dei CPR di Bari e di Trapani in seguito al rinvio a giudizio di alcuni rappresentati della cooperativa proprio per attività connesse alla gestione dei due CPR. Chissà se basterà per non sentirne più parlare o se continueranno a presentarsi sotto nuove vesti.
4. In questi anni, avete svolto un fondamentale ruolo di supporto ai e alle migranti detenute nei CIE e, poi, nei CPR, denunciando le condizioni inumane di trattenimento. Quali sono le maggiori difficoltà che avete incontrato e che incontrate in quest’opera di costante monitoraggio da voi svolta?
Come è noto i CPR sono luoghi difficilmente accessibili, in particolare per noi. Le ultime visite autorizzate della Campagna LasciateCIEntrare, infatti, risalgono all’agosto 2018 insieme all’europarlamentare Eleonora Forenza. Nel 2021 si entrò un’unica volta con l’on De Falco a Ponte Galeria, per poi non riuscire più a entrare da nessuna parte.
Dal 2018 riceviamo risposte negative alle richieste di accesso che inoltriamo periodicamente, con delegazioni diverse, alle Prefetture di tutti i territori in cui ci sia un CPR. Le risposte sono secche: non è concesso ingresso, la Campagna non è soggetto autorizzabile, con evidente carenza di motivazione. Oppure il rifiuto è motivato dal non avere maturato consolidata esperienza quale “ente di tutela dei titolari della protezione internazionale”, non avere uno statuto che attesti tale attività e non essere iscritti a un registro delle associazioni di settore. In sintesi, in quanto “mero” coordinamento di realtà della società civile con una esperienza ultra decennale in materia, su questa base è costantemente negato il diritto di accesso.
Non potendo entrare nei CPR e verificare le condizioni dall’interno, non resta che farlo dall’esterno. Riceviamo chiamate dai familiari o amici dei reclusi, o da essi stessi quando riescono a comunicare. Condizione fondamentale è poter utilizzare un telefono, e sono pochi i CPR nei quali questo è consentito. Solo in quello di Gradisca è consentito tenere il proprio telefono senza limitazioni ed è proprio da qui che arriva la gran parte del materiale che mostra le pessime condizioni del trattenimento e le tante violazioni di diritti subite dai reclusi. Ma da alcuni CPR è difficile ricevere notizie, come da quello di Bari.
In queste condizioni è molto difficile offrire un supporto sistematico ed efficace. Non sempre si riesce a raccogliere informazioni dettagliate anche solo per segnalare gravi situazioni alle autorità competenti e ai garanti. Come risulta difficile mettere in contatto i detenuti con avvocati di fiducia che possano garantire una difesa adeguata.
Ciò che possiamo fare è raccontare la detenzione amministrativa attraverso chi la vive, ovvero fungere da megafono per portare all’esterno le voci di chi vive l’inferno dei CPR.
5. Il d.l. n.13/2017, del Ministro dell’Interno Minniti, ha dato nuovo vigore alla detenzione amministrativa, prevedendo l’istituzione di un CPR in ogni regione (attualmente abbiamo 10 Centri per un totale di circa 1100 posti). Cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo Governo, probabilmente a guida Meloni, sul tema?
Come ci si poteva aspettare il nuovo governo ha da subito previsto un ampliamento della rete dei CPR, proprio sulla base delle disposizioni della legge 46/2017 (di conversione del cd “decreto Minniti”) che già aveva stabilito le modalità per la dislocazione territoriale dei nuovi centri per il rimpatrio, prevedendone l’apertura di uno in ciascuna regione.
Con il disegno di legge della manovra finanziaria 2023, all’art. 120, come si apprende dalle bozze circolate nei giorni precedenti la presentazione in Parlamento, si prevede un aumento di 206 posti nelle strutture destinate alla detenzione amministrativa, per un costo stimato di oltre 42 milioni di euro per il triennio 2023-2025. L’avvio dei lavori è annunciato per l’estate 2023.
Dei nuovi posti previsti, 106 saranno realizzati attraverso l’ampliamento di due CPR già attivi, per una spesa complessiva di circa 23 milioni di euro. Il CPR di Macomer (Sardegna) crescerà di 50 posti, arrivando così a una capacità di 100, come originariamente previsto al momento della sua attivazione nel 2020; anche il CPR di Pian del Lago (Sicilia) verrà potenziato passando da 92 a 148 posti.
Altri 100 posti, poi, saranno creati in nuove strutture o individuandone alcune tra quelle pubbliche già esistenti da convertire in CPR, con una spesa di quasi 13 milioni di euro.
Da oltre un ventennio le politiche di gestione dei flussi migratori puntano sulla espellibilità dei cittadini stranieri che non riescono a raggiungere l’Italia e l’Europa secondo canali “legali” o che non vi possono permanere in modo regolare, quindi, riuscendo a mantenere un permesso di soggiorno. L’immigrazione “irregolare” è considerata una minaccia per la sicurezza interna degli Stati europei. E infatti le disposizioni che riguardano la materia migratoria le ritroviamo accanto a quelle che trattano di sicurezza e, nel caso dell’attuale manovra finanziaria, sono contenute nel “Titolo IX” dedicato a “Difesa e sicurezza nazionale”.
I vari governi che si sono susseguiti dalla seconda metà degli anni Novanta non hanno mai messo in discussione questa impostazione nei confronti della migrazione, perché mai dovrebbe farlo un governo i cui esponenti hanno fatto della campagna “anti-migranti” la principale arma di propaganda?
6. Negli ultimi anni, abbiamo visto un vero e proprio accanimento nei riguardi dei cittadini tunisini, che -nel 2020- hanno rappresentato ben il 60% dell’intera popolazione detenuta nei CPR e l’83,5% dei rimpatri effettuati. La situazione non si è modificata nel 2021, dove i tunisini continuano a essere il 54,4% dei detenuti nei Centri e il 72% dei rimpatriati. Nell’ultimo anno, inoltre, è aumentata la percentuale della popolazione egiziana presente nei CPR (dal 3% nel 2020 al 10% nel 2021), con un importante aumento anche dei rimpatri (dal 3% nel 2020 all’11% nel 2021). Come leggiamo questi dati? Il sistema della detenzione amministrativa è sempre stato selettivo rispetto alle cittadinanze da detenere o si è perfezionato negli ultimi anni? L’accanimento rispetto a determinate nazionalità ha delle ripercussioni sulla lesione dei diritti fondamentali di queste persone (es. rimpatri collettivi; violazione del diritto d’asilo)?
Una delle più frequenti critiche rivolte al sistema della detenzione amministrativa è quella di essere inefficace e inefficiente rispetto alla finalità per cui è stata istituita. Ovvero quella dell’esecuzione del rimpatrio dei cittadini stranieri irregolari. Se osserviamo i dati del rimpatrio dai CPR (già CPT, poi CIE) dal 1998 al 2021, notiamo che è stato eseguito solo per il 47, 5% delle oltre 200 mila persone che vi sono transitate.
Mantenere il sistema della detenzione amministrativa e dei voli di rimpatrio è molto costoso, anche dal punto di vista economico e non solo per la violazione di diritti. Nel tempo pare si sia cercato di selezionare gli stranieri da rinchiudere in queste strutture secondo un criterio di più probabile “deportabilità” e di “pericolosità sociale”, in modo da giustificarne la privazione della libertà. Per esempio, lo straniero “irregolare” che ha scontato un periodo di detenzione in carcere, a fine pena, appena mette piede fuori dal carcere viene portato in un CPR. Spesso senza capire il motivo di questa doppia pena. Senza contare chi diventa “irregolare” proprio nel corso del periodo trascorso in carcere perché non vengono rinnovati i documenti.
Il d.l. 130/2020 sancisce i principi riguardo la priorità di ingresso nei CPR “per coloro che siano considerati una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica o che siano stati condannati, anche con sentenza non definitiva [per specifici reati] e per coloro che siano cittadini di Paesi terzi con i quali sono vigenti accordi di cooperazione o altre intese in materia di rimpatrio, o che provengano da essi” (art. 14 co. 1.1. T.U.I.). Da qui si evince la preferenza del trattenimento per chi è “deportabile”, ovvero per chi proviene da determinati paesi più collaborativi in tema di rimpatrio.
Non stupisce che i cittadini tunisini ed egiziani siano tra le nazionalità maggiormente rappresentate nella popolazione detenuta nei CPR e in quella dei deportati.
Nel primo caso, dal 2020, la rinegoziazione degli accordi tra Italia e Tunisia, ha previsto, oltre che cospicui finanziamenti per il governo nordafricano, anche più rapide procedure di rimpatrio. Questo ha significato vere e proprie operazioni di rimpatrio collettive ai danni di migliaia di cittadini tunisini che, immediatamente dopo lo sbarco in Italia, si sono trovati nella morsa della privazione della libertà. Prima, bloccati su nave quarantena – quando erano attive -, oppure in hotspot, per subire rimpatri diretti o da CPR. Tutto ciò senza la possibilità di presentare richiesta di asilo, in un vortice rapidissimo di eventi, che non consentiva di comprendere cosa stesse accadendo, e senza una adeguata difesa legale. In alcuni casi il periodo di detenzione in CPR è durato anche pochi giorni. Queste espulsioni collettive, ribadiamo illegittime, basate prevalentemente sul paese di provenienza (Tunisia è considerata un paese sicuro), hanno riguardato molte persone vulnerabili. Solo in alcuni casi siamo riusciti ad assistere alcune di esse e a fare valere i loro diritti.
Nel caso dei cittadini egiziani, esistono delle procedure semplificate tra Italia ed Egitto. In base a intese di cooperazione tra polizie dei due paesi, i “presunti” cittadini egiziani possono essere rimpatriati anche senza una previa identificazione. Infatti, questa può avvenire una volta arrivati all’aeroporto de Il Cairo. Appare evidente come queste procedure non possano che favorire violazioni di diritti fondamentali.
Abbiamo seguito 130 cittadini egiziani bloccati su una delle navi quarantena e che, grazie al supporto dell’avvocata Alessandra Ballerini, sono riusciti, almeno, a evitare un rimpatrio immediato e ad avere garantita la possibilità di presentare una richiesta di protezione internazionale.
Nonostante gli accorgimenti di cui abbiamo parlato, nonostante si cerchi, almeno sulla carta, di “scegliere” chi rinchiudere nei CPR, in realtà, finirvi è abbastanza casuale: quando si va in Questura per reiterare una domanda di protezione internazionale, o a rinnovare un documento, oppure in occasione di controlli di polizia sul territorio, ecc. È frequente trovare tra le persone detenute anche persone la cui condizione è evidentemente incompatibile con la detenzione, con disagio psichico, con patologie croniche, insomma vulnerabili, ma anche coniugi di cittadine italiane.
Tornando ai dati sui rimpatri degli ultimi anni, si può notare come questi continuino ad attestarsi intorno al 50% delle persone transitate nei CPR. Perciò possiamo affermare che nonostante i tentativi di operare una scelta dei cittadini stranieri da rinchiudere nei CPR in modo da garantire un rimpatrio “certo”, in realtà è lo straniero “irregolare” in quanto tale a essere considerato un criminale e un pericolo per la società, dalla quale deve essere allontanato con ogni mezzo disponibile.
7. Solo negli ultimi 3 anni, sono state nove le persone morte di detenzione amministrativa. Vi è un tratto comune di queste morti? È difficile riuscire ad avere verità e giustizia rispetto alle stesse? Quanto è importante fare pressioni (pensiamo -ad esempio- alla creazione del Comitato per Abdel Latif) per evitare che queste morti vengano archiviate?
Lo scorso anno, partendo dal progetto “Morti di CIE”, abbiamo iniziato a sistematizzare dati e informazioni sulle vittime della detenzione amministrativa per ricordarle nel giorno della loro morte. Si tratta di un progetto aperto, che richiede un ampio supporto per ricostruire ciascuna storia e mantenerla viva, per non dimenticare, per non farla cadere nell’oblio.
L’elenco è in continua evoluzione e non comprende solo chi ha perso la vita all’interno dei centri, ma anche chi ne è stato vittima indiretta: come Mohammad Muzaffar Alì (detto Sher Khan), noto attivista, deceduto nel dicembre 2009 per strada a causa del freddo, a tre giorni dal rilascio dal CIE di Ponte Galeria, in cui non sarebbe dovuto neppure entrare.
Si tratta di morti causate dalla mancanza o dal grave ritardo di assistenza sanitaria, dall’abuso di farmaci, di abbandono. Molte di queste morti sono rimaste senza spiegazione, senza responsabili. A volte i testimoni sono stati rapidamente rimpatriati prima di potere giungere alla verità. Tutti hanno in comune il fatto di non avere avuto giustizia.
E se per molti casi non è stato possibile arrivare a indicare delle responsabilità, in altri, come per il suicidio di Moussa Balde nel famigerato “ospedaletto” del CPR di Torino oppure nel caso di Wissem Abtel Latiff, morto legato a un letto dell’ospedale psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma, dopo essere stato privato della libertà prima in una nave quarantena e successivamente nel CPR di Roma, vogliamo credere che le indagini in corso possano trovare dei responsabili, che le famiglie possano finalmente trovare verità e giustizia.
Per questo motivo è stato costituito il Comitato “Verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif”. Per non dimenticare, per mantenere l’attenzione sull’accaduto, per ricordare fino alla verità.
8. Nel 2011, con il ministro dell’Interno Maroni, vi è stato un forte irrigidimento della disciplina del trattenimento amministrativo nei CIE (con il prolungamento dei termini di trattenimento fino a 18 mesi e con la circolare che impediva l’accesso nelle strutture). Proprio in quegli anni, grazie alle proteste dei detenuti e al supporto della società civile, si è riusciti a smantellare il sistema della detenzione nei Centri, che sono passati da 14 nel 2011 a poco più di 4 nel 2017. Anche la giurisprudenza ha dovuto riconoscere come il trattenimento nei CPR avvenisse in condizioni indegne: es. il Tribunale di Crotone, nella sentenza n.1410/2012, ha assolto dei detenuti dell’allora CIE di Isola Capo Rizzuto, cui erano stati imputati i reati di danneggiamento e di resistenza a pubblico ufficiale in occasione di alcune proteste verificatesi all’interno della struttura. L’autorità giudiziaria, in quella sede, ha assolto gli imputati, ritenendo sussistente la legittima difesa. Infatti, le condizioni dell’allora CIE (con riferimento ai locali di pernotto e ai servizi-igienici) sono state ritenute del tutto lesive della dignità umana, configurando una violazione dell’art.3 della CEDU. Nel prossimo futuro sarà, a vostro avviso, possibile rimettere al centro del discorso pubblico e della mobilitazione da parte della società civile, la necessità di chiudere questi luoghi di detenzione? Quali potrebbero essere i passi da fare per raggiungere questo obiettivo?
La sentenza del Tribunale di Crotone sembrava potesse costituire un importante precedente. Per i sostenitori dell’abolizione della detenzione amministrativa era la conferma che i centri per il rimpatrio erano – e continuano a essere – luoghi di abuso e di privazione di diritti, e per di più legittimava le quotidiane proteste interne. Per il sistema stesso era un pericoloso precedente che avrebbe potuto aprire la strada allo smantellamento dei centri dall’interno. Ma così non è stato, anzi le disposizioni contro chi reagisce alle condizioni di vita inumane e degradanti tipiche dei CPR sono diventate ancora più repressive. Infatti con il c.d. decreto Lamorgese del 2020 è stata estesa le possibilità di procedere all’arresto per le persone accusate di reati commessi con violenza alle persone e alle cose durante il trattenimento nei CPR (hotspot, Cpa, Cas), anche dopo 48 ore dall’accaduto, e utilizzando documentazione video-fotografica, attraverso l’applicazione dell’istituto della “flagranza differita” e procedendo con giudizio direttissimo (art. 14 co. 7-bis T.U.I.).
Dal gennaio 2020 al 31 maggio 2022 sono 151 le persone arrestate nei CPR. Risulta evidente l’intento di punire chi si oppone alla detenzione. D’altronde la chiusura definitiva o temporanea di questi centri è avvenuta solo in seguito ad atti di protesta interna che ne hanno provocato l’inagibilità e bloccato il funzionamento.
Un’altra sentenza che sembrava potesse essere d’aiuto alla causa della chiusura dei CPR è quella del Tribunale di Bari del 2017 (n. 4089) che in primo grado – poi confermata dalla Corte di Appello di Bari (n. 2020) il 30 novembre 2020 – aveva ritenuto che la presenza del CPR (allora CIE) nel territorio di Bari, in cui i trattenuti si trovavano in condizioni lesive della loro dignità e in contrasto con le norme di legge che regolano il funzionamento di tali strutture, costituisse un danno all’immagine e all’identità delle amministrazioni locali (Comune e Provincia), quindi, condannava a un risarcimento il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Questa sentenza avrebbe potuto stimolare la contrarietà delle amministrazioni locali dall’accettare un CPR nei nel proprio territorio, ma evidentemente così non è stato. Tanto è vero che quello di Bari è ancora lì.
Certo, gli strumenti giuridici sono utili nel migliorare alcune situazioni, ma la chiusura dei luoghi della detenzione amministrativa può essere attuata solo con una forte opinione pubblica che miri, prima di tutto, a un cambiamento di prospettiva riguardo l’intera gestione del fenomeno migratorio.
Difficile dire quali possano essere i passi da fare per chiudere definitivamente i CPR. È sempre stato molto complicato riuscire a coinvolgere l’opinione pubblica sulla questione, lo è ancora di più da quando si è imposta la rappresentazione del migrante come nemico della nostra sicurezza.
9. Nel vostro nuovo rapporto “Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei CPR d’Italia” avete ampiamente parlato delle criticità e della violazione dei diritti che sistematicamente subiscono le persone rinchiuse. Potreste riassumere quelle che secondo voi sono le tematiche più urgenti da affrontare?
Non smetteremo mai di ribadire che i CPR sono luoghi di privazioni di libertà, di diritti e di dignità. La tematica più urgente da affrontare è la stessa esistenza di queste strutture.
Gli strumenti giuridici messi a disposizione dall’ordinamento interno come da quello internazionale consentono di porre dei rimedi a particolari situazioni contingenti. Spesso alle rilevate illegittimità seguono risposte del legislatore per porre una “pezza” a lacune o violazioni.
Deve essere chiaro che i CPRnon possono essere migliorati o umanizzati. Non ci sono tematiche che meritano di essere risolte prima di altre, perché derivano tutte dalla illegittimità della privazione della libertà personale per un mero illecito amministrativo. Questo è reso possibile dal solo fatto di considerare “non persone” coloro la subiscono, non riconoscendole come titolari di diritti fondamentali.
In copertina: il CPR di Roma, foto di Federica De Logu.