Il fallimento della COP26 sul clima
di Francesco Paniè – Ricercatore Associazione Terra
Doveva essere l’anno della svolta, si è rivelato l’ennesimo buco nell’acqua. La COP26 sul clima, tenutasi a Glasgow, è riuscita a non decidere ancora sulle azioni sempre più drastiche necessarie ad evitare l’eccessivo riscaldamento globale.
I 197 paesi membri dell’UNFCCC, la Convenzione quadro dell’ONU sul cambiamento climatico, hanno chiuso le due settimane di vertice nella capitale scozzese approvando un documento vago, poco ambizioso e non vincolante, riconfermando alcuni impegni ma evitando di concretizzarli.
Del resto, la storia delle COP è questa, eccezion fatta forse per l’edizione del 2015, che ha prodotto l’Accordo di Parigi. Tuttavia, è importante guardare a quel momento politico in prospettiva: a sei anni di distanza, infatti, non sembra che abbia prodotto qualcosa in termini di risultati. Forse perché è un accordo non vincolante, che non entra nel dettaglio delle cose da fare, ma fissa soltanto un obiettivo: quello di non superare un riscaldamento globale di 1,5-2 °C entro fine secolo rispetto al 1850. Tutti gli altri impegni prevedono coerenza con questo target, ma rimangono poco quantificati e necessitano di organismi di gestione e supervisione la cui costituzione viene rinviata da anni.
Per raggiungere un accordo, sostenevano i suoi promotori, bisognava renderlo non vincolante. Ma così facendo, ci troviamo a meno di un decennio dalla soglia fatidica del 2030 con gli impegni volontari di ciascun paese che, se sommati, portano a un aumento delle emissioni del 14% invece che a una riduzione di almeno il 45% rispetto ai livelli 2010, come sarebbe coerente con gli obiettivi concordati a Parigi. Stanti così le cose, il programma ONU per l’ambiente prevede una crescita delle temperature di 2,7 °C entro fine secolo, che sarebbe letteralmente devastante per la vita di intere comunità. Secondo un rapporto pubblicato a fine ottobre dalla Federazione internazionale delle società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, la maggior parte dei 30,7 milioni di sfollati censiti nel 2020 erano in fuga da inondazioni, incendi, siccità o ondate di caldo. E queste tendenze sono destinate ad aumentare nei prossimi decenni: un report della Banca Mondiale dello scorso settembre prevede che oltre 200 milioni di persone migreranno nei prossimi trent’anni a causa di eventi meteorologici estremi o del lento degrado dei loro ambienti. La maggior si muoverà all’interno del proprio paese d’origine, ma circa un quarto delle persone in fuga potrebbe superare i confini, cercando una vita migliore in altre nazioni.
I negoziati sul cambiamento climatico dovrebbero focalizzarsi sulle necessità, i bisogni e soprattutto i diritti di queste comunità, per cui esiste anche un acronimo: MAPA, Most Affected People and Areas.
Servono grandi flussi finanziari che dai paesi ricchi e industrializzati calino in quelli più impoveriti e afflitti dalla crisi climatica, per aiutarli a riparare le perdite e i danni già subiti, mitigare gli effetti futuri e adattarsi agli scenari che dovranno fronteggiare.
Eppure, anche questa COP26 è stata una delusione per i paesi più poveri. Nel 2009 erano stati pattuiti 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020 per progetti di mitigazione e adattamento, ma a fine 2021 non sono stati raggiunti nemmeno i primi 100. La dichiarazione finale siglata a Glasgow si rammarica per questo ritardo e si impegna a raddoppiarli dal 2025. Per le perdite e i danni non è stato neppure definito un ammontare, né creato l’organismo che deve catalizzare i finanziamenti ed erogarli in base alle necessità. Quasi tutti i (pochi) soldi finora messi a disposizione dai paesi industrializzati sono per impianti o progetti che generano un ritorno per le aziende multinazionali che li implementano, lasciando poco o nulla sui territori. Inoltre, si spende poco per l’adattamento, che ha meno appeal dal punto di vista dei profitti, pur rappresentando invece un asse fondamentale di politica climatica.
Il fallimento più evidente della COP, tuttavia, risiede nel mancato accordo sulla fine dello sviluppo del carbone e dei finanziamenti pubblici a tutti i combustibili fossili. La prima bozza del documento finale era caratterizzata da un linguaggio molto esplicito su questo punto, chiedendo di “accelerare l’eliminazione graduale del carbone e dei sussidi ai combustibili fossili”, ma nei giorni successivi è stata svuotata di senso. Nella sua ultima versione, emendata da un blitz dell’India nella plenaria conclusiva recita: “accelerare la riduzione graduale dell’energia a carbone non abbattuto e dei sussidi inefficienti ai combustibili fossili”.
Non sono un mistero le mire espansionistiche dell’India e della Cina nel prossimo futuro nell’ambito dell’energia a carbone: entrambi i paesi vogliono uscire rapidamente dalla crisi covid e sostenere la ripresa usando il combustibile fossile più sporco del mondo. Ma le critiche di USA e UE al blocco orientale sono del tutto fuori luogo: questo testo infatti è molto simile a quello contenuto nella dichiarazione USA-Cina siglata proprio durante la COP in pompa magna, così come ricalca quella che ha chiuso il G20 a presidenza italiana lo stesso giorno dell’apertura del vertice di Glasgow. Inoltre, un certo bullismo istituzionale è stato riportato da parte europea e statunitense nei confronti dei paesi meno sviluppati, convinti a lasciar cadere le loro richieste di fondi per le perdite e i danni dovuti all’emergenza climatica.
Glasgow fotografa dunque uno stallo che non possiamo permetterci, certifica un multilateralismo stantio e improduttivo e spinge i movimenti sociali a fare un ulteriore salto di qualità nella mobilitazione e nella pressione politica. Senza una spinta dal basso inedita e coordinata, rischiamo davvero di perdere il pochissimo tempo rimasto per operare una transizione ecologica radicale e necessaria ad evitare il tracollo dei sistemi che sorreggono la nostra esistenza e quella delle altre forme viventi. Le centinaia di migliaia di attiviste e attivisti che hanno inondato le strade della capitale scozzese nei giorni della COP ci restituiscono l’impressione che il movimento sia vivo e frizzante. Ma occorre uno sforzo ulteriore di sintesi e di proposta, capace di offrire a una politica ingessata la visione concreta di un futuro ecologico. Prima che sia troppo tardi.