Alternative all’irregolarità: per un nuovo modello di migration management
Alternative al trattenimento nei centri di detenzione amministrativa per stranieri.
Alternative alla privazione della libertà personale per i migranti che hanno perso il permesso di soggiorno a causa delle difficoltà burocratiche ma che potrebbero ottenerlo nuovamente con un supporto adeguato.
Alternative ad essere rinchiusi in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) dal quale probabilmente usciranno allo scadere dei termini del trattenimento per l’impossibilità di essere rimpatriati. E saranno, come prima di entrare in una delle prigioni amministrative, irregolari e invisibili, manovalanza per lo sfruttamento lavorativo o per le associazioni malavitose.
In poche parole, alternative all’irregolarità. È questo il modello che intende proporre la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili (CILD) insieme all’associazione Progetto Diritti attraverso il progetto Alternative alla detenzione: verso una gestione più efficace e umana delle migrazioni. Perché se ad oggi è prassi costante, in Italia come in molti altri Paesi, rinchiudere gli stranieri nei centri di detenzione amministrativa non perché hanno commesso un reato, ma perché irregolari sul territorio, un modello alternativo esiste e se venisse applicato ad ampio raggio ne gioverebbero tutti i soggetti coinvolti e l’intera collettività.
La detenzione amministrativa in Italia
Quella della detenzione amministrativa in Italia è una storia lunga più di 20 anni. Si tratta di una detenzione “senza reato” che riguarda soggetti stranieri in attesa di essere rimpatriati, che dovrebbero essere trattenuti per il tempo strettamente necessario all’identificazione e all’espletamento delle procedure di espulsione. Dal 1998 la detenzione amministrativa è stata una costante nel panorama delle politiche italiane in tema di gestione della migrazione, legittimata da ultimo anche dal contesto normativo europeo con la c.d. Direttiva rimpatri del 2008 (Direttiva 2008/115/CE).
Gli attuali Cpr, che in principio si chiamavano Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza e successivamente Centri di identificazione e espulsione, sono stati istituiti per la prima volta dalla legge Turco-Napolitano (legge n. 40/1998). Inizialmente il limite massimo del trattenimento era fissato a 30 giorni, poi aumentato a 60 giorni (legge n. 189/2002, c.d. Bossi- Fini), a 180 giorni (legge n. 125/2008) sino ad arrivare per iniziativa dell’allora Ministro dell’Interno Maroni a un massimo di 18 mesi (decreto legge n. 89/2011).
Con la Legge europea 2013 bis (legge n. 163/2014) c’è stato un cambiamento di tendenza: per la prima volta dal 1998, infatti, il legislatore è intervenuto non per aumentare i limiti massimi della detenzione amministrativa, ma per ridurli in maniera significativa, passando a un termine improrogabile di 3 mesi, o addirittura di soli 30 giorni nel caso in cui lo straniero abbia già trascorso almeno 3 mesi in carcere. Da ultimo, nonostante la dibattuta questione dell’inutilità del prolungamento della durata del trattenimento in assenza di accordi di riammissione con i Paesi di provenienza degli stranieri da espellere, il noto decreto n. 113/2018 (c.d. Decreto Salvini) ha non solo esteso fino a 180 giorni il periodo di detenzione ma ne ha anche ampliato le condizioni.
La detenzione amministrativa funziona?
No. Sebbene infatti nel corso degli anni il legislatore sia intervenuto più volte sui termini massimi di trattenimento degli stranieri nei centri più volte rinominati, come sottolineato anche dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale l’analisi dei rapporti percentuali tra numero di persone rimpatriate e di persone trattenute dimostra che la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute si è sempre attestata attorno al 50%, indipendentemente dai termini di trattenimento vigenti. I dati indicano quindi come l’efficacia del sistema delle misure di trattenimento non sia direttamente correlata all’estensione dei termini massimi di permanenza nei centri, ma sia piuttosto dovuta ad altri fattori, primo fra tutti il livello di cooperazione offerto da ciascun Paese di provenienza dei cittadini stranieri.
Da anni le statistiche mostrano come mediamente il rimpatrio dei detenuti nei centri di detenzione amministrativa o avviene entro i prima 30-60 giorni, oppure è difficilissimo che avvenga. Ci sono infatti ostacoli, come di frequente la mancata cooperazione al rimpatrio della rappresentanza diplomatica del Paese di origine dello straniero, che molto raramente possono venire superati nei mesi successivi. Con le riforme che aumentano la durata massima della detenzione, quindi, questo istituto perde la sua finalità originaria – il superamento degli ostacoli che impediscono il rimpatrio – per acquisire invece una natura sanzionatoria e simbolica, per punire con la privazione della libertà personale degli individui che non hanno commesso un reato, ma che sono “colpevoli” di essere irregolari.
Che cosa si intende per “alternative”?
Le alternative all’irregolarità consistono in una serie di misure volte a evitare che gli stranieri presenti sul nostro territorio vengano privati della libertà personale per il solo fatto di essere irregolari. Le alternative alla detenzione pongono l’accento sul coinvolgimento dello straniero piuttosto che sull’imposizione dall’alto di regole e misure poco comprensibili quali il trattenimento nei Cpr, con l’obiettivo di sviluppare sistemi di gestione dell’immigrazione efficaci che allo stesso tempo rispettino i diritti dei migranti. L’idea alla base delle alternativa è quella di non detenere di default in attesa di un risultato – il rimpatrio – che probabilmente non arriverà mai, ma esplorare insieme allo straniero tutte le opzioni a sua disposizione al fine di assicurare che faccia una scelta consapevole e sostenibile. Perché il rimpatrio forzato non è l’unica opzione. Spesso le persone che finiscono nei Cpr sono persone vulnerabili che rischierebbero serie violazioni dei diritti umani se venissero rimpatriate – le diverse ragazze vittime di tratta che stavano per essere rimandate in Nigeria ne sono un esempio vivente. In altri casi ciò che ha portato le persone all’irregolarità è un insieme di complicazioni burocratiche, cambiamenti legislativi e barriere linguistiche, che però non implica che lo straniero in questione non abbia diritto a ottenere un permesso di soggiorno per rimanere regolarmente sul territorio italiano. Infine, lo straniero che non ha la possibilità di rimanere in Italia può decidere di tornare volontariamente nel proprio Paese, ricevendo supporto affinché quella del rimpatrio volontario sia una scelta sostenibile nel lungo periodo.
A differenza della detenzione e delle altre misure coercitive, le alternative basate sulla cooperazione con i migranti coinvolti favoriscono una gestione della migrazione umana, efficace e conveniente, nonché risultati più sostenibili e convenienti per l’intera collettività: stranieri, comunità ospitanti e governi. Quello basato sulle alternative è un approccio diverso alla governance della migrazione promosso a livello globale dall’International Detention Coalition e sperimentato a livello europeo da alcuni progetti pilota in vari paesi appartenenti allo European Alternatives to Detention Network. Dal 2019 anche CILD e Progetto Diritti fanno parte di questo network, e alla lista dei progetti pilota in Europa si è aggiunto il nostro progetto in Italia, finanziato dall’European Programme for Integration and Migration (EPIM).
Le nostre alternative: il case management e la ricerca della migliore soluzione
Il modello di alternative all’irregolarità che proponiamo attraverso il nostro progetto si basa sul coinvolgimento diretto delle persone interessate per mezzo della presa in carico dei singoli casi (c.d. case management). Il case management consiste in un percorso individualizzato di supporto e di orientamento nel corso del quale lo straniero viene messo nelle condizioni di esplorare tutte le opzioni che ha a disposizione. Con l’aiuto di un operatore (o case manager) i migranti possono acquisire una visione globale e dettagliata della loro situazione giuridica ed esplorare tutte le opzioni a loro disposizione per poi prendere decisioni informate. Il tutto in libertà nella comunità ospitante, e non rinchiusi all’interno di un centro di detenzione amministrativa. Elemento essenziale del case management è il rapporto di fiducia reciproca tra case manager e migrante, che permette che i diritti degli stranieri siano rispettati e favorisce il raggiungimento di un risultato che soddisfi tutti i soggetti coinvolti.
Risorse: