Chelsea Manning e la guerra al whistleblowing
Sabato 18 aprile, al Festival Internazionale del Giornalismo, CILD organizza un dibattito su Chelsea Manning e sul ruolo dei whistleblower nel dibattito pubblico su privacy, sicurezza e sorveglianza. Per delineare i temi, ecco una presentazione scritta dal moderatore dell’incontro, il ricercatore e giornalista Philip Di Salvo.
Qui tutti gli eventi che CILD organizza durante il Festival.
Sono passati 5 anni da quando per Chelsea Manning si sono aperte le porte del carcere con il sospetto, poi divenuto accusa, confessione e condanna, di essere la whistleblower dietro alcuni tra i maggiori leak pubblicati da WikiLeaks a partire dal 2010.
Guardare indietro a quegli scoop fa riavvolgere il nastro della storia più recente del giornalismo internazionale su alcuni dei suoi momenti più topici: 90mila e più documenti riservati sulla guerra in Afghanistan, 400mila e più file sul conflitto in Iraq voluto da Bush, 250mila e più cablo della diplomazia Usa e 779 documenti sui detenuti di Guantanamo. Oltre al video “Collateral Murder”.
A quei leak, e quindi al coraggio di Manning, non dobbiamo solo alcuni tra i più rappresentativi esempi del giornalismo contemporaneo, ma anche una fetta considerevole della nostra comprensione di alcuni eventi del presente.
Cinque anni dopo quel 27 maggio 2010, quando venne arrestata in Iraq, Chelsea Manning non è mai uscita dal carcere.
Le autorità Usa le hanno rivolto ben 22 accuse complessive, per un totale possibile di oltre 100 anni di detenzione, per aver fatto una singola cosa: essere la fonte di alcune rivelazioni giornalistiche fatte nell’interesse pubblico. Tra le accuse, anche quella, tremenda, di aver “aiutato il nemico” rivelando al mondo i contenuti degli archivi più segreti degli Stati Uniti.
Il carcere, però, non ha portato subito al processo per Chelsea Manning, che ha dovuto attendere l’inizio del suo giudizio per oltre tre anni in diverse prigioni militari degli Usa. Tre anni totali in semplice attesa di processo, un’enormità kafkiana di abuso di potere e negazione dei fondamenti democratici. Per ben 11 mesi, 11 mesi di attesa, Manning è stata reclusa in “solitary confinement”, in condizioni che l’Onu ha definito “crudeli, inumane” e comparabili alla tortura.
Il processo contro Manning è iniziato solo nel giugno del 2013, pochi giorni prima che scoppiasse il caso Datagate ed Edward Snowden riportasse di fronte all’opinione pubblica il whistleblowing come fondamentale pratica di denuncia di irregolarità e abusi da parte dei governi. Nel febbraio dello stesso anno, Manning aveva confessato il suo ruolo come fonte di WikiLeaks e patteggiato la pena per 10 delle accuse che le erano originariamente state imputate.
Il carcere, però, non ha portato subito al processo per Chelsea Manning, che ha dovuto attendere l’inizio del suo giudizio per oltre tre anni in diverse prigioni militari degli Usa. Tre anni totali in semplice attesa di processo, un’enormità kafkiana di abuso di potere e negazione dei fondamenti democratici. Per ben 11 mesi, 11 mesi di attesa, Manning è stata reclusa in “solitary confinement”, in condizioni che l’Onu ha definito “crudeli, inumane” e comparabili alla tortura.
Il processo contro Manning è iniziato solo nel giugno del 2013, pochi giorni prima che scoppiasse il caso Datagate ed Edward Snowden riportasse di fronte all’opinione pubblica il whistleblowing come fondamentale pratica di denuncia di irregolarità e abusi da parte dei governi. Nel febbraio dello stesso anno, Manning aveva confessato il suo ruolo come fonte di WikiLeaks e patteggiato la pena per 10 delle accuse che le erano originariamente state imputate.
La vicenda Manning è diventata un crocevia di elementi che spiegano alcune delle questioni fondamentali dei nostri tempi e proprio quella sentenza è emblematica per diverse ragioni. Il carcere imposto a Manning indica chiaramente il clima fosco che avvolge il whistleblowing e il giornalismo investigativo negli Usa, negli anni in cui l’”amministrazione più trasparente della storia” americana ha messo sotto indagine, ai sensi dell’Espionage Act, più whistleblower di quanti non abbiano subito la medesima sorte dalla Prima guerra mondiale in avanti. Comparando atti di giornalismo allo spionaggio, se non al terrorismo.
Il caso Manning ricorda anche quanto figure finite sotto investigazione, come WikiLeaks, Edward Snowden, Jeremy Hammond, il giornalista James Risen, Barrett Brown, John Kiriakou, siano in un qualche modo intrinsecamente accomunate dalla prevaricazione della sicurezza nazionale (o dal suo spauracchio) su altri fondamentali principi della democrazia, a cominciare dalla libera stampa. Nessuno dei responsabili dei crimini di guerra rivelati da Chelsea Manning, per esempio, ha subito un processo. L’unica a pagare è stata la whistleblower.
Del processo contro Chelsea Manning si è parlato poco, al punto che, nel 2014, Project Censored ha definito il caso come la notizia più censurata dell’anno nel suo periodico ranking. A questo proposito è bene ricordare come tutto il processo contro Chelsea Manning sia stato condotto in un clima di segretezza de-facto e sostanzialmente a porte chiuse, senza la trasparenza che un caso di tale interesse pubblico imporrebbe.
A 5 anni di distanza dall’arresto di Chelsea Manning è tempo di tirare le somme.
All’International Journalism Festival di Perugia cercheremo di fare il punto della situazione, coinvolgendo alcune tra le persone più vicine alla vicenda Manning o a quelle di altri whistleblower.
Sabato 18 aprile alle 09.30, presso la Sala Raffaello dell’Hotel Brufani di Perugia, se ne discuterà con Ben Wizner, Direttore dell’ACLU Speech, Privacy & Technology Project e consulente legale di Edward Snowden; Annie Machon, Direttrice della Courage Foundation, che si occupa della difesa dei whistleblower; Alexa O’Brien, giornalista americana tra le voci più attive nel coverage del processo Manning e Antonella Napolitano della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili.
Philip Di Salvo è dottorando presso l’ Università della Svizzera italiana di Lugano.
I suoi ambiti di ricerca sono il whistleblowing e le mutazioni del giornalismo. Scrive per lo European Journalism Observatory e Wired Italia.