Dopo due anni riapre il Cpr di Torino

Share on FacebookTweet about this on TwitterShare on LinkedInEmail to someone
Print Friendly

Dopo due anni di chiusura, il 24 marzo 2025 ha riaperto il Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Torino. 

Aperto nel 1999, il CPR di Corso Brunelleschi è stato uno dei primi centri in Italia progettati per trattenere cittadini stranieri in attesa di identificazione ed espulsione. 

Dopo una lunga gestione da parte della Croce Rossa, nel gennaio 2015 il controllo è passato alla società francese GEPSA. Ricordiamo che, durante la sua gestione, si sono verificati due degli aventi più tristementi noti riguardanti il centro piemontese: nella sezione di isolamento dell’ “ospedaletto” si sono tolti la vita Faisal Hossein e Moussa Balde, rispettivamente nel 2019 e 2021. 

Da febbraio 2022 la gestione è passata a ORS Italia Srl, ma il centro fu chiuso nel marzo 2023 a seguito di rivolte e incendi scoppiati nei mesi precedenti, culminati il 4 e 5 febbraio in proteste legate alle condizioni di detenzione. Gli episodi causarono danni ingenti e il trasferimento forzato di gran parte dei migranti verso altri CPR (Trapani, Potenza, Macomer), fino ad arrivare alla chiusura del centro e alla fine del contratto di ORS. 

Dopo una ristrutturazione costata 250 mila euro, per un capienza provvisoria di circa 60 posti, il bando prefettizio indetto nel 2024 è stato vinto dalla cooperativa piemontese Sanitalia. La gara, basata sul criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ovvero su chi propone il prezzo più basso per i servizi richiesti, è stata vinta con una proposta da 8,4 milioni di euro per due anni, una cifra che, sotto diversi aspetti, solleva non poche criticità.

La cooperativa piemontese, già radicata nel territorio in ambito socio-sanitario, in strutture psichiatriche, RSA, ma anche nel sistema di accoglienza dei CAS, aveva collaborato in passato con il gestore francese GEPSA e si era candidata anche per il CPR in Albania e Milano. Tra le promesse avanzate da Sanitalia per Torino figurano corsi di italiano e attività ricreative e didattiche, ma, secondo osservatori indipendenti e Monica Cristina Gallo (Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino), mancano i protocolli operativi e il personale adeguato. L’ente avrebbe, inoltre, annunciato un accordo con l’ASL per garantire assistenza psichiatrica, smentito però dallo stesso Dipartimento di salute mentale, che ha precisato di non poter assicurare un’osservazione clinica costante. 

Inoltre, la sezione di isolamento dell’ “ospedaletto” è stata chiusa, ma al suo posto è stata inserita una stanza con quattro letti e una finestra, dove è stato affermato che saranno collocate le persone che, per problematiche particolari, potrebbero aver bisogno di essere sorvegliate. Non esiste, però, nessun protocollo per contrastare il rischio di suicidio, una mancanza già emersa nel corso della precedente gestione. 

La riapertura ha scatenato, dunque, subito polemiche e rimostranze: già nei giorni precedenti, associazioni, sindacati e membri dell’amministrazione comunale hanno manifestato il loro dissenso. La Garante Gallo, ha affermato che le condizioni non cambieranno, in quanto non è stata trovata “nessuna nuova soluzione, ma un nuovo ente gestore che, per la prima volta, si troverà a gestire un luogo che, in nome della sicurezza, umilia la Costituzione e la dignità delle persone che vengono rinchiuse in attesa di un rimpatrio che molto probabilmente non avverrà”.  

Il 25 marzo sono arrivati i primi trattenuti, provenienti principalmente da Tunisia, Marocco, Egitto, Cile, Ghana e Serbia. Tra loro ci sono anche persone provenienti da istituti penitenziari, nonostante per legge la loro identificazione per il rimpatrio potrebbe avvenire in carcere. Prefettura e questura avevano, inoltre, comunicato che i primi arrivi sarebbero stati legati a problemi di sovraffollamento in altri CPR, condizione in cui però al momento non si trova nessuna delle strutture italiane.  

All’interno del centro “ristrutturato”, le condizioni di vita dei detenuti continuano ad essere pessime: l’acqua è fredda, sono stati rimossi i telefoni fissi e manca qualsiasi tipo di privacy. Già dopo una settimana, allora, sono iniziati disordini, proteste e ferimenti in un contesto di gravi violazioni dei diritti umani. Solo ad aprile sono stati registrati 22 eventi critici in 29 giorni: atti di autolesionismo, ingestione di oggetti (pile, plastica, shampoo), proteste per la mancanza di acqua calda, materassi dati alle fiamme. 

Il 5 maggio, durante una delle numerose proteste, alcuni consiglieri comunali e regionali, tra cui esponenti di PD e AVS, hanno tentato di entrare per verificare la situazione dei trattenuti, ma gli è stato negato l’accesso con un cordone antisommossa che li ha tenuti fuori per circa due ore, senza ricevere alcuna informazione ufficiale sulle condizioni interne e sullo stato di salute dei detenuti. È evidente che impedire tale accesso equivale a una mancanza di trasparenza da parte dell’ente gestore e delle forze di polizia e serve ad ostacolare il controllo democratico.

Tra le proteste più significative, uno sciopero della fame durato tre giorni e la rivolta del 16 maggio, iniziata prima “nell’area blu”, dove i trattenuti avevano rifiutato il pasto per via delle restrizioni imposte alle comunicazioni telefoniche, e culminata poi la sera in un incendio di materassi che ha distrutto l’intera “area bianca”. Il fuoco sarebbe stato acceso dopo la consegna della terapia, quando due migranti hanno tentato la fuga dal cortile. Uno di loro, raggiunto da un agente, ha riportato una frattura alla gamba nel tentativo di fuga, mentre un altro agente sarebbe rimasto intossicato dai fumi dell’incendio. Le persone recluse hanno dormito per due notti all’aperto, prima di essere trasferite in altri centri. Continuano i lavori per ripristinare le aree danneggiate.

Di fronte all’evidente fallimento della gestione del centro, Sanitalia cerca di placare gli animi con vaghe promesse di miglioramenti nelle condizioni di detenzione. 

Purtroppo nel centro vengono recluse persino persone con gravi fragilità psichiche senza alcun supporto, che, anche secondo i parametri normativi, non dovrebbero essere considerati idonei al trattenimento. Per tre migranti, invece, la convalida di trattenimento è stata negata dalla Corte d’Appello di Torino, in quanto non erano stati informati del loro diritto di chiedere protezione.

Ricordiamo qui Hamid Badoui, cittadino marocchino che, dopo aver scontato una pena nel carcere di Torino, è stato trasferito al CPR di Bari per permesso di soggiorno scaduto, per poi essere  trasferito a Gjadër. Liberato dopo un’ordinanza del Giudice di pace di Roma, che ha ritenuto illegittimo il suo trattenimento in Albania, è tornato a Torino, ma è stato nuovamente arrestato. Meno di 24 ore dopo, il 19 maggio, si è tolto la vita nella sua sezione detentiva, dopo aver affermato che, piuttosto che tornare nel CPR albanese, avrebbe preferito restare in carcere. 

Le proteste e le rivolte all’interno dei CPR sono, quindi, al momento, l’unico strumento che le persone recluse hanno a disposizione per farsi ascoltare e mettere in luce le condizioni indegne del trattenimento. Con il decreto legge sicurezza, convertito in Legge 9 giugno 2025 n. 80, queste forme di protesta rischiano di essere represse con ancora maggiore durezza. Il nuovo piano normativo infatti, non solo rafforza i dispositivi di controllo e di sorveglianza, ma criminalizza ogni forma di dissenso, anche quello che nasce dalla disperazione e dalla necessità di rivendicare diritti fondamentali, che nei CPR vengono sistematicamente negati.