Dentro le mura del CPR di Palazzo San Gervasio

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di Irene Proietto e Arianna Egle Ventre

Il 10 agosto, quando la Parlamentare Rachele Scarpa entra nel Centro di Permanenza per il rimpatrio (CPR) di Palazzo San Gervasio, sono passati cinque giorni dalla morte di Oussama Darkaoui nel centro. Nel momento in cui Scarpa chiede di poter visionare le cartelle sanitarie dei trattenuti, le viene impedito. Lo stesso avviene con l’elenco dei nominativi. Quando chiede di poter avere accesso al registro degli eventi critici, Scarpa non può sapere che quel registro semplicemente non esiste, nonostante sia un obbligo dell’ente gestore far sì che sia tenuta traccia degli episodi critici all’interno del CPR. Il potere ispettivo della Parlamentare viene fortemente limitato. Se al momento della visita le motivazioni della morte di Darkaoui sono incerte, vengono rese ancora più oscure dalla natura del sistema CPR.

Le proteste all’interno della struttura, la morte di un giovane ragazzo, gli ostacoli posti a Parlamentari e delegazioni: ciò che è certo è che le condizioni detentive nel CPR sono allarmanti e altrettanto allarmante è la poca, quasi assente, trasparenza su ciò che avviene al di là delle mura. Le visite ispettive diventano cruciali nel tentativo di denunciare e rompere l’opacità dei CPR. In questa prospettiva il 16 dicembre la delegazione di CILD entra nel CPR di Palazzo San Gervasio e il giorno successivo presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza, che ha come oggetto gravi criticità riscontrate nel corso dei mesi e della visita. Nella segnalazione sono messi in evidenza i limiti posti alle facoltà ispettive della Parlamentare Rachele Scarpa, ma anche molte altre gravi violazioni a partire dallo stato della struttura. 

L’aspetto del Centro di Palazzo San Gervasio – distante circa 4km dal primo centro abitato – è a tutti gli effetti quello di una grande gabbia: la struttura ha una capienza regolamentare di 128 posti, suddivisi in 17 moduli. Gli “ospiti” (così, infatti, la normativa di riferimento appella le persone nei CPR), sono costretti tutto il giorno all’interno dei moduli, separati tra loro da alte grate in metallo. Il tempo è scandito solo dalla somministrazione dei pasti e degli psicofarmaci. 

Il cibo, spesso maleodorante e di scarsa quantità, arriva direttamente nei moduli in vaschette prive di data di scadenza o indicazioni sul contenuto, senza alcuna distinzione sulla base di esigenze specifiche derivanti da malattie o regimi alimentari differenziati (in aperta violazione con quanto previsto dallo schema di capitolato d’appalto nazionale). La luce nelle celle è costantemente accesa e centralizzata: una prassi censurata dal Garante nazionale già nel 2018, il quale raccomandava di garantire la possibilità di accendere e spegnere gli interruttori (come previsto negli istituti di pena nel rispetto della dignità delle persone private della libertà) in modo che i trattenuti non siano costretti a rimanere con la luce accesa anche di notte. Nelle celle sono assenti campanelli d’allarme, rendendo molto difficile poter allertare il personale del Centro nelle situazioni di emergenza. 

Ogni cella di pernotto è composta da 4 letti in cemento, un televisore e quattro cubi di cemento utilizzati come armadi per tenere gli effetti personali. Le condizioni in cui versano i locali sono a dir poco disumane: muffa, materassi privi di copertura o assenti, finestre rotte, porte assenti, docce inagibili nei locali di servizio – uno per otto persone -, mancanza di acqua calda e di riscaldamento. Sui letti, al posto delle coperte, molti sono costretti ad utilizzare degli asciugamani. Mancano i più basilari oggetti che dovrebbero essere distribuiti per la cura della persona con altre possibili violazioni delle disposizioni prescritte dal capitolato d’appalto. 

Il CPR di Palazzo San Gervasio è un luogo desolante, un luogo senza cura, asfissiante, chiuso. Un’estetica e una trascuratezza che impatta sulla salute psicofisica delle persone costrette ad abitare il centro. L’assenza è il leitmotiv della vita nel CPR: assenza di un locale di osservazione sanitaria, assenza di una cassaforte per i farmaci stupefacenti per le terapie sostitutive della tossicodipendenza, assenza di un servizio psicologico. In sintesi, assenza di diritti.  

Fin dall’ingresso nel CPR, il personale sanitario della ASL competente deve effettuare la visita che certifichi l’idoneità al trattenimento. Qui avviene la prima ferita inferta al diritto alla salute. Le visite sono per lo più rapide e si limitano ad analizzare l’assenza di malattia infettive, come nel caso di un certificato di idoneità visionato dalla delegazione entrata nel CPR il 10 agosto, chiaramente in violazione con l’articolo 3 della Direttiva del Ministero dell’Interno. Nella valutazione non sembra essere considerata la situazione psicologica della persona. D’altronde la vita in comunità ristretta nei CPR non può che infierire nella salute mentale delle persone trattenute. E gli psicofarmaci sembrano l’unica ‘soluzione’ adottata dal personale. 

Durante la visita ispettiva della delegazione entrata in agosto la psicologa dell’ente gestore è assente per malattia. Nessuno a sostituirla da venti giorni. Questo comporta una possibile violazione del capitolato d’appalto, oltre a essere una diretta violazione dei diritti delle persone detenute, private di un’assistenza psicologica continuativa. Ciò vale nella gestione complessiva del servizio di assistenza sanitaria: infatti in numerose segnalazioni molti trattenuti raccontano di non essere adeguatamente visitati dal personale medico del Centro e di non ricevere le terapie con regolarità; situazione confermata dalle visite ispettive compiute anche dai consiglieri regionali della Regione Basilicata. 

Ogni vissuto nel Centro di permanenza è un tassello di un puzzle più ampio, un quadro fatto di violazioni, violenza e abuso. In particolare alcune segnalazioni raccolte dall’Avv. Arturo Raffaele Covella e dal Dott. Nicola Cocco sono emblematiche dell’impatto del sistema CPR sulla salute e dell’inadeguatezza del trattenimento per molti soggetti trattenuti. 

È sera. È fine settembre. L’avvocato Covella riceve una telefonata. Parla una voce, qualcuno dei trattenuti di Palazzo San Gervasio. Racconta di un uomo malato, con un catetere vescicale, dolorante ed emaciato abbandonato nella parte esterna del centro. Non è chiaro perché sia stato abbandonato lì, su un materasso nello spazio aperto adibito a campo sportivo del CPR, esposto alle intemperie, senza coperte. Al momento della telefonata, il personale del centro sembra ignorare le richieste dell’uomo. Vuole essere portato in un luogo riparato, niente di più; questo è quello che chiede. 

Pochi giorni dopo, a inizio ottobre, l’avvocato riceve un messaggio vocale. Questa volta è una donna a parlare, preoccupata. Non sente il suo compagno dal giorno prima e le altre persone trattenute con lui nel CPR di Palazzo San Gervasio le hanno detto che dorme e non risponde a nessuno stimolo esterno. Un messaggio vocale, una nuova storia nella costellazione di violazioni del sistema CPR. Covella contatta le persone che vivono nello stesso modulo abitativo dell’uomo. Confermano ciò che ha riferito la compagna; l’uomo non si alza dalla mattina precedente quando ha assunto una terapia farmacologica. Da allora, nessuno ha più controllato il suo stato di salute. Né il personale sanitario, né nessun altro, se non i suoi compagni di trattenimento che riferiscono a Covella che «è tornato, si è accasciato al letto e non si è più mosso. È sdraiato e non ce la fa né a parlare, né a mangiare, né a camminare». Solo alle tre di notte viene finalmente ricoverato in ospedale. 

Nell’esposto presentato da CILD, un’altra vicenda spicca negli avvenimenti degli ultimi mesi di Palazzo San Gervasio, anch’essa segnalata dall’avv. Covella, avvocato di fiducia della persona coinvolta e dettagliatamente descritta nella relazione medica di Nicola Cocco. Fin dalla visita di valutazione dell’idoneità al trattenimento della persona menzionata emerge un chiaro problema, il solito leitmotiv dell’assenza. Risulta del tutto carente una mediazione culturale e linguistica, che da capitolato dovrebbe essere invece garantita. Sta di fatto che nel suo passaggio dal carcere al CPR non avviene una reale valutazione, nonostante i due luoghi non siano da considerarsi né affini né continuativi. 

La difficoltà di comunicazione con il personale medico persiste e contraddistingue anche il suo trattenimento. Diviene stigma, discriminazione, umiliazione. La sua “identità sessuale” viene considerata qualcosa da valutare con un linguaggio altamente medicalizzante da parte del personale sanitario del CPR. Eppure viene al tempo stesso completamente ignorata. La persona in questione viene sottoposta a valutazione psichiatrica presso l’Ospedale di Potenza, a seguito della quale viene solo confermata l’assenza di problemi psichiatrici rilevanti, delegando ulteriori approfondimenti al Centro di Salute Mentale (CSM). Torna nel CPR nonostante i chiari pericoli evidenziati dalla “Carta dei diritti e dei doveri dello straniero nel Centro di permanenza per il rimpatrio”: sono numerosi i fattori di rischio per persone dichiaratamente LGBTQIA+ o che vengono percepite come non binarie sia dalle altre persone detenute che dal personale di cura e di custodia nei CPR. 

Rischi che si avverano. Nel mese di ottobre del 2024 il medico del CPR denuncia al CSM che il soggetto coinvolto vive quelli che definisce con un idioma medicalizzante come “disturbi di adattamento” e “ostracismo verbale ed attitudinale” da parte delle altre persone trattenute. In sintesi avebbe vissuto una serie di atti di violenza e discriminazione proprio per la sua presunta identità sessuale non binaria. Sollevato ancora una volta un dubbio in merito all’idoneità al trattenimento, la psichiatra del CSM che valuta la sua situazione rileva un “importante deficit cognitivo”: è chiara la non compatibilità con la permanenza nel CPR, in ottemperanza con l’art. 3 della Direttiva del Ministero dell’Interno del 2022. Eppure anche questa volta non viene messa in discussione la sua idoneità alla vita nel CPR. Viene prescritta una terapia psicofarmacologica di difficile monitoraggio oltre a «un’osservazione clinica dell’utente e assistenza nelle attività quotidiane in virtù della scarsa autonomia evidenziata». Tale scelta viene giustificata facendo riferimento alla Direttiva ministeriale che sancirebbe, secondo la psichiatra, l’obbligo del CPR di preservare le diversità anche nell’ambito della identità e dell’orientamento sessuale. Obbligo che non appare minimamente menzionato nella Direttiva. Solo l’intervento del Garante Nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale libera il soggetto coinvolto dall’inferno di Palazzo San Gervasio, anche se lasciato comunque senza assistenza e presa in carico una volta fuori. 

La storia del CPR di Palazzo San Gervasio è caratterizzata da una perpetua violazione dei diritti fondamentali: già dal 2011 la stampa denominava l’allora CIE “la Guantanamo italiana” in seguito a un’inchiesta sul trattenimento di 57 cittadini tunisini intrappolati in una struttura simile a quella di una gabbia per uccelli. Al momento la gestione del Centro da parte dell’ex ente “Engel Italia srl” dal 2018 al 2023 è oggetto di un’inchiesta della Procura di Potenza, per la quale 27 persone – tra medici, personale della struttura, forze dell’ordine e legali – sono indagate per maltrattamenti, falsificazione delle ricette per la prescrizione di psicofarmaci e frode nell’esecuzione dei contratti d’appalto. Anche il Comitato Europeo di Prevenzione della Tortura (CPT), nel suo rapporto sulle visite effettuate nel 2024 nei CPR italiani, evidenzia come nel Centro oltre ad atti di violenza fisica contro i detenuti sia normalizzata la somministrazione di psicofarmaci «diluiti nell’acqua» senza prescrizione né supervisione medica. Eppure, nonostante le inchieste e le costanti denunce della società civile e delle autorità indipendenti, Il CPR di Palazzo San Gervasio continua ad essere l’ennesimo ingranaggio funzionante all’interno del sistema CPR: la rappresentazione di un autentico meccanismo di tortura, un monito costante per chi osa sfidare la sacralità dei confini.

 

Foto via Terredifrontiera/Emma Barbaro