Referendum cannabis, e ora?
Solo l’altro giorno la Corte Costituzionale ha bocciato il Referendum Cannabis. Qui non interessa entrare nelle motivazioni, su cui molto hanno detto e scritto altri dei promotori del quesito referendario (tra questi anche Leonardo Fiorentini, componente anche del board di CILD). Quello che più ci preme e provare a rispondere ad una domanda: e ora?
Quotidianamente nel mio lavoro ho a che fare con i KPI. Praticamente degli indicatori di performance che vengono fissati per capire se il proprio lavoro, la propria attività stanno raggiungendo gli obiettivi che ci si era prefissati. E’ utile avere questi indicatori ed è utile averli a breve, medio e a lungo termine, perché ci consentono di valutare davvero l’andamento di ciò che facciamo e correggere il tiro nel caso le cose non stiano funzionando come avremmo voluto.
Questa breve premessa è utile per inquadrare anche la questione cannabis.
Andando a recuperare i resoconti parlamentari all’epoca dell’approvazione della legge (nell’ormai lontano 1990) ho ripreso un intervento di Vincenzo Scotti, all’epoca capogruppo alla Camera dei Deputati per la Democrazia Cristiana e divenuto di lì a poco Ministro dell’Interno (e in seguito altri ruoli di primaria rilevanza).
Abbiamo tutti sottolineato che il principio di questo dramma è il disagio giovanile. Ma non basta. Bisogna riconoscere che la droga è un dramma aggiunto, che va affrontato decisamente in sé; ciò è necessario se non si vuole correre il rischio di scardinare ancora di più dalle fondamenta il nostro mondo giovanile, tragicamente preso tra il dovere di consumare tutto — anche la vita — e il rifiuto di una esistenza intesa come una corsa all’effimero. Ecco perché, in tutta la legge, abbiamo scelto come unica linea efficace quella della prevenzione, avendo ben presente che la prima regola del prevenire è conoscere ciò che è pericoloso e ciò che non lo è, e affermarlo con chiarezza. Assumere sostanze stupefacenti o psicotrope è illecito: l’ordinamento deve dirlo per evitare in primo luogo (questo è lo scopo principale) che nella droga cadano quelli (e sono i più) che ancora non l’hanno provata.
Tale atteggiamento dà una visione ben precisa dello Stato — vogliamo ricordarlo ai nostri oppositori —, una visione certa – mente laica e democratica, che non significa però indifferenza od inerzia. Ciò che ci muove no. è una motivazione di ordine o di sicurezza sociale, ma è sempre ed innanzitutto una questione di solidarietà. Decisa, sulla linea della prevenzione, è stata la lotta al traffico internazionale; sono state rafforzate tutte le misure penali sostanziali e processuali di lotta e si è cercato di predisporre gli strumenti più efficaci di coordinamento, sia tra i diversi organi dello Stato sia a livello internazionale. Passiamo all’altro grosso nodo della legge, che è stato affrontato da parte nostra secondo le stesse coordinate: l’approccio al tossicodipendente visto non come una categoria, ma come una precisa persona da seguire e capire in un rapporto personalizzato. Si è detto che gli articoli 14 e 15 costituiscono il cuore della legge; questo è vero se si tiene conto che gran parte del dibattito di questi ultimi mesi si è incentrato proprio sul trattamento al quale sottoporre il consumatore e che su tale punto si confrontavano diverse concezioni della libertà e dello Stato.
Vi è qui una risposta a diverse esigenze: quella di utilizzare come strumento di prevenzione anche la minaccia di una sanzione; quella di evitare sanzioni penali o emarginanti ma di favorire sempre il recupero; quella di non appesantire troppo il lavoro degli organi giudiziari; quella di socializzare anche il momento di accertamento dell’illecito rendendolo occasione di recupero sociale, capace di un intervento immediato.
Quello che emerge dall’intervento riportato sono gli obiettivi che quella legge si dava: affrontare la questione del consumo di sostanze; combattere il traffico internazionale; dare un supporto alle persone con tossicodipendenza.
Se avessimo posto delle KPI sarebbero potute essere, immagino: una diminuzione del numero di consumatori, una diminuzione del traffico di stupefacenti e una diminuzione del volume di affari dei gruppi criminale e il recupero di una certa percentuale di persone dipendenti.
Un approccio analitico alle politiche pubbliche è quello che serve, e del resto è uno degli obiettivi che la stessa politica si dà. Sul tema cannabis quello che servirebbe è, oggi, un’analisi costi/benefici della legge in vigore da – ormai – 32 anni. Legge che, peraltro, nel suo impatto penale è stata resa più severa tra il 2006 e il 2014 dalla legge Fini-Giovanardi.
Bisognerebbe chiedersi se quella legge ha raggiunto gli obiettivi che si dava. E, nel caso li abbia raggiunti, a quali costi (economici e sociali).
Ciò che i dati ci dicono è che nessuno di quegli obiettivi è stato raggiunto. Il numero di consumatori è stabilito oltre il 10% della popolazione italiana (la maggior parte fa uso di cannabis). Il sistema di guadagno delle mafie è fortemente ancorato al traffico di stupefacenti (nel 2015 il rapporto finale del progetto OCP , Organised Crime Portfolio, coordinato dal centro di ricerca Transcrime (leggi) dell’Università Cattolica di Milano stabiliva proprio nelle droghe la maggior fonte di ricavo delle organizzazioni criminali). L’impatto penale delle attuali politiche poi porta molti tossicodipendenti ad incontrare il carcere (in galera, in questo momento, circa il 25% dei reclusi ha una diagnosi in tal senso), luogo dove il processo di disintossicazione è praticamente nullo, cosa non aiuta le persone e neanche la sicurezza.
Dunque, pur se gli italiani non si potranno esprimere sul Referendum Cannabis, le ragioni dei promotori e degli oltre 600.000 firmatari, che nell’arco di pochissimi giorni hanno voluto fare loro questa causa, restano. Intatte. Attuali.
Sarebbe utile che i decisori politici facciano una seria analisi di cosa sono stati questi tre decenni di “guerra alla droga”, provando a percorrere altre strade. Fissando dei KPI, ovvio.